Il coronamento di un sogno e di una carriera. Un sogno che si interrompe al venticinquesimo minuto della finale. Cristiano Ronaldo, fino ad oggi considerato “il Portogallo”, deve abbandonare la squadra, costringendo tutti ad ammettere che, sì, oltre lui una squadra c’è. E tiene anche testa alla Francia, favorita fin dall’inizio degli Europei.
Una squadra che, per alcuni, non sarebbe dovuta arrivare nemmeno ai quarti. E invece arriva in finale. E la vince. Una piccola soddisfazione per noi, romantici orfani delle storie italiana e islandese. Una grande soddisfazione per loro, i calciatori portoghesi, che la Storia l’hanno fatta. Ma Ronaldo, il capitano, il leader, il bomber, il pallone d’oro, rischia di non far parte del capitolo finale, non più importante del percorso, ma sicuramente più indelebile per i tifosi, per gli spettatori. Per i fotografi. Perché, da quando l’uomo ha la possibilità di catturare dei frammenti di vita, la narrazione degli eventi più felici, in particolare di quelli sportivi, avviene attraverso le immagini, che riportano agli occhi il momento vivo, tradotto immediatamente in emozioni tramite i nervi che scavano nella memoria e la riportano, di nuovo, agli occhi, che la esplicitano nell’espressione stessa della vita umana – gioiosa o dolorosa: le lacrime. Ebbene, il rischio dell’assenza è presto allontanato: Ronaldo sarà presente nelle foto. E, probabilmente, in un modo che farà incidere la sua immagine nella memoria sportiva in modo più indelebile della scritta “PORTUGAL” sulla Coppa. Perché Cristiano Ronaldo, saltellando e zoppicando dalla panchina al bordo campo, rosso in faccia e con la rabbia negli occhi, urla, dà indicazioni, fa il capitano.
Fa più del capitano: oscura quasi la figura dell’allenatore, al quale si sostituisce quasi negli ultimi minuti di gioco, con una presunzione e un quasi irrispettoso menefreghismo che solo lui potrebbe permettersi – e che solo a lui potrebbero essere permessi. Meritatamente, probabilmente. È l’immagine di un campione che deve giocare, sente la necessità di farlo, ma non può. Eppure lo fa. Trasmette, in qualche modo, la sua energia alla squadra. Una squadra che, però, dimostra di esistere e di saperla ricevere. Una squadra che c’è sempre stata, è sempre esistita, ma che molti osservatori hanno – non è chiaro perché – voluto nascondere dietro l’immagine del capitano, come se una competizione calcistica si potesse portare avanti con meno di undici calciatori in campo.
Una squadra che, al termine dell’impresa, si stringe intorno al capitano che scioglie la rabbia per primo e dà il via anche agli altri, attraverso l’espressione stessa della vita umana – gioiosa e dolorosa: le lacrime.
Pietro Marino