Esistono luoghi del pianeta dove non si sa per quale motivo si respira un’aria diversa. È come se la concezione del tempo, dello spazio e del possibile non seguisse una retta lineare ma si curvasse, dando così vita a fenomeni particolari. Barcellona è uno di questi luoghi.
Città di grande storia e spessore culturale, Barcelona è una delle capitali del mondo. Indipendentismi, arte, passione. Le sue contraddizioni vengono rispecchiate perfettamente nella sua capacità di essere contemporanea pur preservando il suo passato. Rivoluzionaria di natura, è riuscita a legare il proprio nome a modelli e fenomeni culturali che hanno influenzato il mondo intero. Anche nello sport. Anche nel calcio.
Barcellona è la Parigi-calcistica del periodo illuminista. E dal momento che, come detto, esistono luoghi in cui si ha una percezione diversa del tempo, questo “periodo” dura da ormai quasi mezzo secolo. Ha così avuto la possibilità di entrare in contatto con le menti più brillanti e invidiate del mondo del pallone; cambiando, evolvendo e trasformando in arte tutto ciò che è transitato all’ombra del Camp Nou. Grande, maestoso, affascinante come La Rambla barcelonina.
Tutto è iniziato negli anni settanta con l’arrivo di Rinus Michels e Johan Crujiff, i due olandesi che hanno cambiato per sempre la concezione del Gioco. Il concetto di totalità del futbol azulgrana – ripreso poi da Guardiola quasi quarant’anni dopo – nacque in quell’autunno del 1973. Manchester non è la prima città in cui José Mourinho e Pep Guardiola vivono nello stesso periodo, è accaduto anche alla fine degli anni novanta, qui, a Barcellona. Erano entrambi sotto le dipendenze di Louis van Gaal. Un altro olandese. Un altro genio. E poi… e poi, Diego Armando Maradona, Rivaldo, Xavi Hernandez, Andres Iniesta, Lionel Messi. Insomma, ecco a voi il mazzo, scegliete quale carta pescare: sono tutte vincenti.
Per chi è nato negli anni ottanta-novanta, però, Barcellona per tanti anni ha significato un solo nome: Ronaldo de Assis Moreira. O, più comodamente, Ronaldinho Gaùcho. Forse, il più geniale di tutti. Sicuramente, il più grande artista. Perché se per voi il calcio è arte, allora Ronaldinho è il stato il migliore di tutti.
La storia di Ronaldinho è la classica storia di quei ragazzi-fenomeni che fin da piccoli sanno di avere quel qualcosa in più degli altri. Più dei coetanei, più dei ragazzi grandicelli d’età che non hanno abbastanza talento per sognare di poter lasciare il Brasile, un giorno. Ma non più del fratello maggiore, l’uomo che gli ha fatto da padre quando il loro è morto – Dinho aveva solo 8 anni – e che gli ha trasmesso la passione per il calcio. Come spesso sentiamo dalle storie dei giocatori sudamericani, anche in questo caso colui che ce l’ha fatta non era il più talentuoso della famiglia. E Roberto – questo il suo nome – di talento ne aveva da vendere. Nel giro della nazionale giovanile sin da adolescente, il Grêmio decide di puntare su di lui e lo tessera all’età di sedici anni. Il club crede nel ragazzo al punto che deciderà di offrirgli una villa con piscina per indurlo a rifiutare le avance dei club europei, tra cui il Torino. Sarà purtroppo un brutto infortunio a fermare prematuramente la sua carriera, che vivrà di pochi raggi di Sole. Nel 2002 decide di dire basta e diventa il procuratore di suo fratello.
Il Grêmio gioca una parte importante nella storia della famiglia de Assis. João, il padre, spesso arrotondava come parcheggiatore durante le partite casalinghe all’Estádio Olímpico Monumental. Tessera Roberto e poi anche Ronaldo, a soli sette anni. Il club sa di avere tra le mani uno di quei talenti benedetti dal Signore che passano una volta ogni tanto, tant’è vero che nel 1997 decide di fargli firmare il primo contratto da professionista. Ronaldinho fa letteralmente impazzire la gente di Porto Alegre. Non solo è un giocatore devastante ma il suo modo di approcciare il calcio e la vita è ciò che lo rende mais brasileiro do que todos.
In Brasile non può durare molto. Uno del genere, prima o poi, viene saccheggiato dall’Europa. Arrivano offerte monstre da ogni dove: Real Madrid (35 milioni), Inter (47 milioni), addirittura Leeds United (67 milioni). Ma il Grêmio resiste e rifiuta. Nel 2001 accade che il Paris Saint-Germain ufficializza di aver firmato il giocatore. Una firma che porterà il club parigino nei tribunali, accusato di averlo fatto senza il benestare della società. Fatto sta che Dinho atterra in Europa. Non è però la Francia la destinazione ideale di un giocatore che vuole dominare a ritmo di samba il Gioco del calcio. Ed ecco che arriviamo all’estate 2003.
Prima abbiamo parlato della revoluciò azulgrana, di come Barcellona sia una de La Mecca per gli appassionati dello sport. Eppure quando arrivò il Brasiliano nel luglio del 2003, il club viveva un momento tutt’altro che splendido mentre il Real Madrid dei Galacticos conquistava la Spagna, l’Europa e il Mondo. Il presidente Laporta doveva fare il modo che la ruota ricominciasse a girare e l’unico modo per farlo era firmare un giocatore che cambiasse il volto alla squadra.
Nel mirino c’erano 3 giocatori: Beckham era il nostro preferito, poi c’erano Ronaldinho e Thierry Henry. Con il Manchester United ci eravamo già accordati, ci incontrammo all’aeroporto di Heathrow e firmammo un pre-contratto nel quale loro promettevano che avrebbero venduto a noi il giocatore una volta che io sarei diventato presidente. Per come andarono le cose, capii soltanto dopo che mi stavano usando.
A questo punto la dirigenza catalana decise di cambiare rotta e dirigersi verso Parigi. Pochi giorni e 30 milioni dopo, Ronaldinho era un giocatore del Barcellona.
El partido de gazpacho. La Liga aveva programmato un turno infrasettimanale per mercoledì 3 settembre. Il problema era che molti dei giocatori di livello internazionale non avrebbero potuto partecipare al turno di campionato, poiché dovevano partire per raggiungere la nazionale. Tra questi, ovviamente, vi era Ronaldinho. Il presidente Laporta provò qualunque cosa per spostare la partita al martedì – come era accaduto tra Real e Villarreal – e permettere al giocatore di fare il suo esordio in casa contro il Siviglia. Secondo i dirigenti del Barça, il presidente del club andaluso aveva accettato la proposta per poi rimangiarsela.
“Si giocherà secondo le regole, si giocherà di mercoledì”.
“Ok, giochiamo di mercoledì… cinque minuti dopo la mezzanotte”.
Nonostante la furia del Siviglia, la partita si programmò per quell’orario. Il Barcellona programmò una serata – per meglio dire nottata – ad hoc, con museo aperto fino al calcio d’inizio, un nuovo speaker e tre tenori per rendere tutto magico. I tifosi accorsero in 80.000 per lo show. Mancava solo lo showman.
Il motivo per restare in piedi sino a tardi arrivò intorno all’1.30. Ronaldinho prende palla dietro la metà campo, salta il primo pressing di Martì con un dribbling ad uscire, evita anche il secondo uomo e da circa trenta metri scarica un siluro che sbatte contro la parte bassa della traversa ed entra in rete. Il Camp Nou impazzisce. Il telecronista impazzisce. Impazziscono tutti.
La storia di Ronaldinho con il Barcellona comincia così, con una giocata da extraterrestre. Di solito, in questi casi si dice ….e il resto è storia. Ma qui si va ben oltre la storia, qui è dove lo sport incontra l’arte. Ronaldinho è stato uno dei pochissimi giocatori nella storia ad esaltare chiunque, i compagni increduli, i propri avversari e chi il calcio lo vede ma non lo guarda. Un fenomeno globale, l’estro personificato, un danzatore di samba con l’animo del jazzista, capace di improvvisare, sorprendere e rinnovare sempre una melodia. Oggi siamo abituati ormai a valutare i giocatori in base alle statistiche, alle vittorie, ai trofei. Ma esistono uomini che sono fuori dall’orbita dell’ordinario e anche dello straordinario. E per tale motivo vanno valutati secondo altri canoni. Sono artisti. E Ronaldinho è stato innanzitutto un artista e poi un calciatore.
Obrigado, Dinho!
Michele Di Mauro