Napoli – Ancora novità nel penitenziario di Opera riguardanti il boss Luigi Cimmino. Tanti sono gli anni di di attività criminale che ha il boss alle spalle e frequenti sono state le carcerazioni e scarcerazioni che si sono susseguite durante questi, fino a far diventare il temuto capoclan una pallina da ping pong sbattuta prima dentro, poi fuori e poi di nuovo dentro la cella.
Luigi Cimmino inizia l’attività criminale come affiliato del clan Alfano. Gli Alfano erano una potente famiglia camorristica affiliata agli Scissionisti di Scampia, grazie al cui appoggio erano riusciti ad ottenere il controllo della zona collinare della città, zona Arenella-Vomero. Agli Alfano si affiancano i Caiazzo; ma il dominio di questa nuova unione camorristica sul quartiere Vomero-Arenella è assai breve: gli scissionisti iniziano a dover fronteggiare una serie di faide interne, che ben presto si diffondono anche nel nuovo gruppo criminale. Antonio Caiazzo, affiliato del clan, si crea una cellula di alleati, autonoma rispetto alla famiglia Alfano, e, con l’appoggio dei Polverino di Marano, dichiara guerra a questi per ottenere il controllo del territorio collinare partenopeo. Con Caiazzo, Luigi Cimmino.
Fu proprio il Cimmino, infatti, la presunta vittima della sparatoria che invase le strade di salita Arenella l’11 giugno del 1997. A sparare un commando di camorra del gruppo criminale avversario che cercava di far fuori gli affiliati di Caiazzo. Ma quel giorno quegli spari non colpirono il boss Luigi Cimmino, ma Silvia Ruotolo; un’altra vittima innocente della violenza criminale. Con l’assassinio di Silvia Ruotolo e la testimonianza di un collaboratore di giustizia che svelò alle forze dell’ordine tutte le zone d’ombra che avevano portato all’accaduto, il clan Alfano perse definitivamente il controllo della zona.
Circa 10 furono gli anni di detenzione che anche il Cimmino dovette scontare per associazione mafiosa e per la morte di Silvia Ruotolo. Quando uscì di galera pareva un uomo nuovo, redento si pentiva per i fatti che avevano portato alla morte della donna e annunciava la sua ferma decisione di abbandonare definitivamente la camorra. “Finalmente, dopo aver scontato la mia lunga pena e pagato il debito con lo Stato, io ora ho deciso di fare il grande passo verso un futuro diverso, per potermi godere la mia famiglia. Con questo dico che rinnego e mi dissocio dalla malavita, sia da quella vomerese che da quella di ogni altro genere. E addirittura lascio la zona del Vomero per trasferirmi fuori Napoli”.
Promesse da marinaio, o meglio da camorrista, quelle del boss del Vomero che, tutt’altro che lasciare il suo posto ad altri, ritornò attivo sul palcoscenico criminale partenopeo. Uscito di galera nel 2011 si siede sulla poltrona di capoclan della zona collinare e si occupa della riorganizzazione del gruppo criminale mescolando vecchi affiliati e nuove leve. Il “lavoro” illecito del boss prosegue indisturbato fino al luglio scorso, da lì inizia la sponda tra fuori e dentro il carcere. A luglio viene arrestato, insieme ad altri 5 affiliati del clan, per associazione mafiosa ed estorsione aggravata; in quell’occasione, messo in manette, venne portato in caserma tra un tripudio di applausi e, acclamato dai familiari come un padrino, al grido di “Bravo bravo”.
Dopo qualche giorno, però, il Tribunale del Riesame ritenne le prove insufficienti e scarcerò il capoclan e suo genero, Pasquale Palma; i due prontamente si resero irreperibili. All’inizio di febbraio la Cassazione accolse il ricorso della Dda e ripristinò l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del Cimmino. A marzo, dopo un periodo di latitanza, la polizia trova il Cimmino in un’abitazione a Chioggia, provincia di Venezia, dove si nascondeva; tradito dai medicinali per il diabete trovati durante il blitz notturno. Cimmino torna, quindi, definitivamente in cella su disposizione della Cassazione, in seguito alle indagini del pool anticamorra del procuratore aggiunto Filippo Beatrice e del pm Enrica Parascandolo.
Degli ultimi giorni un nuovo sviluppo delle vicende penitenziarie del boss: è in isolamento con contatti limitati con l’interno del penitenziario e severamente ridotti anche con l’esterno (un colloquio al mese). Il ricorso a tale modalità per il sospetto, venuto fuori in seguito ad una serie di intercettazioni, che il boss si stesse organizzando per una sorta di spartizione territoriale, a colpi di racket e affari illeciti.
Lucia Ciruzzi