Con la crisi del biennio 2007-2008 si è tornato a parlare di forme di contrasto alla povertà, in particolare di reddito minimo garantito e reddito di cittadinanza.
Il dibattito italiano è caratterizzato da una gran confusione attorno a questi due termini, che non tiene conto delle enormi differenze sul piano pratico.
Il reddito minimo garantito è una misura economica selettiva, legata alle condizioni lavorative di un individuo, costituita da prestazioni monetarie o sociali oppure, in alcuni casi, da entrambe.
Ne beneficia chi è in età lavorativa e perde il lavoro, e l’erogazione termina quando si ha una nuova chiamata o si frequentano corsi di formazione per il reinserimento lavorativo.
Inoltre, la sua applicazione è stata estesa nel tempo anche a chi vive al di sotto della soglia di povertà; quindi anche a chi, pur lavorando, fatica ad arrivare alla fine del mese, risultando uno strumento efficace di lotta allo stato di indigenza.
Un punto a suo sfavore è l’incapacità di essere esteso a chi ha una pensione.
Diverso è il reddito di cittadinanza, o di base, una forma “universalistica” di sostegno assicurata vita natural durante a qualunque cittadino maggiorenne, indipendentemente che lavori, o che sia disoccupato, inoccupato o pensionato.
Tuttavia, la sua applicazione comporterebbe alcuni problemi:
1. Il suo carattere “universalistico” comporterebbe che venga percepito anche da famiglie che non risentono della crisi;
2. Nel lungo periodo può divenire un incentivo a non lavorare, essendo percepibile per sempre.
Infine, le differenze riguardano le coperture necessarie al loro finanziamento.
Applicare il reddito minimo garantito comporterebbe gli stessi costi con cui il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha distribuito i famosi 80 euro per poche categorie di lavoratori, risultando inefficace per l’aumento dei consumi degli italiani; invece l’istituzione del reddito di cittadinanza sottrarrebbe risorse economiche per altri bisogni.
Con il fallimento della campagna referendaria organizzata dalla sinistra e da Di Pietro nel 2012, a causa della fine del governo Monti, le misure di sostegno tornano al centro della scena politica col M5S.
Il suo ddl risente della confusione che caratterizza il dibattito italiano, ma in realtà istituisce il reddito minimo, poiché è legato alla ricerca di un lavoro.
Anche per la proposta grillina, però, il punto critico rimane il reperimento delle risorse necessarie a istituirlo: nonostante le cifre elencate nel blog di Grillo, a far discutere è soprattutto l’idea del taglio della spesa nella P.A., nella quale rientra la scuola, umiliata dalle politiche di austerità.
Quello delle coperture è un problema comune alle bozze sia di Sel (600 euro/mese) che del PD, quest’ultima bloccata dalle dichiarazioni di Renzi, che stanzia dei fondi giovanili alla cultura.
Dopo l’iniziativa di Libera si sono poi aggiunte le proposte del presidente dell’Inps Boeri e del referendum di legge popolare in Campania.
La prima prevede un assegno da 500 euro mensili alle famiglie con a carico degli ultracinquantacinquenni sulla via del pensionamento, maggiorato in presenza di eventuali figli disoccupati, finanziato con tagli alle pensioni d’oro, compresi i vitalizi di parlamentari e consiglieri regionali.
Nella proposta campana di reddito minimo, che deve superare le 10.000 firme per essere sottoposta al referendum regionale, è prevista una mensilità da 583 euro per i cittadini singoli maggiorenni – con o senza occupazione –, quanto per le famiglie. Gli obiettivi di questo progetto di legge, che reperirisce le risorse tagliando consulenze e recuperando fondi dalla spesa pubblica, sono l’emersione del lavoro nero, il contrasto al precariato e la tutela dei nuclei familiari minacciati dall’aumento della tassazione, introdotto dal Governo col nuovo Isee.
L’iniziativa campana si ispira al principio per cui le famiglie non possono più mantenere i giovani, che possono così disporre di risorse proprie per realizzarsi come i loro padri.
Eduardo Danzet