Erano gli anni 90. Quegli anni incredibili in cui avere vent’anni voleva ancora dire avere i sogni grandi, e in cui credere negli ideali di una musica fresca che arrivava da lontano era il modo per credere che le cose potevano cambiare davvero.
Un gruppo di giovanissimi sognatori comincia a portare scompiglio nelle vie di un piccolissimo paesino in provincia di Cosenza, Santa Sofia d’Epiro. Si cercano i fondi per comprare un’antenna, si gira per le case a raccogliere i dischi, si riesce a trovare un juke-box. Nasce una radio pirata, Radio Epiro. Epiro come il paese, Epiro come il luogo della mente da cui provengono i primissimi antenati delle comunità arbëreshë italiane, come quella di Santa Sofia.
Antichi albanesi, gelosi custodi di una cultura antichissima che a più ondate ha seguito la rotta diasporica che come tante altre taglia e ricuce il profilo di un mediterraneo mosaico: a partire dal 1400 gli arbëreshë si sono aperti i loro spazi culturali in moltissimi paesi soprattutto del cosentino. Parlano una lingua che è appena intellegibile con l’albanese moderno, ma che è ricca di italiano e di dialetto calabrese, giusto per ricordarci che nella penisola i piani linguistici e culturali sono tantissimi e vari, incastrati perfettamente in un’equilibrio di abilità quasi circense.
L’Italia è un paese che vive di mille popoli. Da molto prima che essere un paese melting-pot diventasse di moda. Francia, Inghilterra, Stati Uniti, sono paesi che orbitano intorno a metropoli abitate da milioni di immigrati che da qualche decina di anni hanno cominciato a diventare parte integrante della humus culturale locale. Qui, invece, siamo già nati doppi. Siamo già nati tanti e diversi. Le mille sfumature identitarie italiane non appartengono solo alle divisioni regionali, ma hanno tanti e vari influssi extracomunitari, come nel caso degli arbëreshë, che a distanza di secoli sono ancora portatori di un patrimonio culturale preziosissimo, perfettamente integrato da sempre con la controparte più puramente italiana (premesso che di puro si possa parlare).
I ragazzi di Radio Epiro nei pieni anni ’90 l’arbëreshë non lo volevano parlare. Le trasmissioni erano in italiano, la musica era straniera. Ma dopo qualche anno, i più piccoli del gruppo, cresciuti a pane e rock tra le mura della Radio, cominciano a produrre musica. Nascono due delle più fantasiose realtà musicali del Sud Italia, i Peppa Marriti band e gli Spasulati band (la cui storia è stata raccontata nel documentario Rock arbëreshë di Salvo Cuccia).
Entrambi girano le vele e si riappropriano della lingua arbëreshë. I Peppa Marriti suonano un rock coniugato con sonorità balcaniche arcaiche. Il nome Peppa Marriti è scelto in omaggio al falegname del paese che spesso e volentieri si perdeva in dissertazioni filosofiche dal profumo socratico con i giovani di Santa Sofia:«Le nostre canzoni – racconta Bobo, testa del gruppo – parlano di storie e personaggi della nostra comunità, come Peppa Marriti, e hanno presto destato l’attenzione anche di persone che non conoscevano prima il nostro status di minoranza linguistica e di immigrati insediati da secoli in una terra che considerano ormai la propria patria».
Gli Spasulati , che in dialetto vuol dire sbandati, smarriti, spostati, mescolano la musica reggae con sonorità qui ska, qui dub e qui balcaniche o arabeggianti.
“È fondamentale non dimenticare da dove vieni. Gli emigranti che lasciavano Santa Sofia conservavano sempre il ricordo del proprio paese e dimostavano che ovunque tu sia la tua terra ti rimane dentro.
Noi non abbiamo bisogno di andare lontano per provare questa appartenenza. Ce la sentiamo dentro. Per questo anche se siamo innamorati della musica straniera, non abbiamo mai pensato di scimmiottare altre lingue. Neanche l’inglese, che è la lingua del reggae“.
Sì a un movimento di orgoglio per le proprie radici arbëreshë, quindi. Perchè le radici sono importanti, e se si mescolano tra di loro si fanno solo più forza, si nutrono a vicenda.
Forse era questo che ha pensato Manu Chao quando ha chiamato gli Spasulati ad aprire il suo concerto a Milano nel 2000: e nell’ambito del reggae un movimento di solidarità culturale fra popoli è fin troppo al suo posto, soprattutto quando si tratta di specificità culturale (perchè non citare i Pitura Freska, gruppo reggae veneziano che nei magici 90 cantava in dialetto veneto).
2017, qualche anno più avanti. Il clima di intolleranza è alle stelle, partiti politici dalle idee razziste e secessioniste spopolano, in un momento di cecità politica e di caos ideologico il popolo italiano non sa più a cosa aggrapparsi per cercare una sicurezza qualunque, un punto di riferimento. Laddove la sinistra è inesistente, una destra razzista che fomenta gli animi attaccandosi ad un concetto di italianità esclusivo (che è più teorico che reale) fa della retorica di altro come mostro il suo argomento principale. Eppure siamo nati in un paese che ha fatto delle migrazioni, sia di arrivo che di partenza, la propria forza. Abbiamo costruito un paese sui mille pezzi di puzzle che ci distinguono per lingua, religione, tradizioni e paesaggi. E ci è riuscito bene.
Il popolo arbëreshë è ad oggi un ottimo esempio di come la cultura, che è un fiore prezioso che non va fatto appassire, sia sempre e comunque una risorsa in continua mutazione. Come un fiume che scorre, che si trasforma: dalla Grecia all’Italia, dalla musica tradizionale al rock, e da questo al reggae jamaicano, senza dimenticarsi di passare dalla Spagna e di fare un balzo di nuovo nei balcani, mentre Cosenza aspetta che il suo arbëreshë ritorni dal lungo viaggio per farselo raccontare davanti ad un piatto tipico.
Ludovica Perina