[Prima parte]
Lo Statuto dei Lavoratori datato 20/5/1970 immediatamente rivoluzionò le relazioni industriali e i rapporti di lavoro. Già dagli anni ’50, e, precisamente, dal congresso Cgil di Napoli del 1952, si aprì il dibattito sulle modalità di attuazione legislativa degli articoli 39 e 40 della Costituzione che prevedevano rispettivamente la libertà di organizzazione sindacale ed il diritto di sciopero.
Fino a quel momento i rapporti di lavoro venivano disciplinati a livello civilistico attraverso la contrattazione collettiva. Era chiara la mancanza di un “appiglio” legislativo ai diritti che, in ambito lavorativo, negli anni cinquanta e sessanta erano stati prima conquistati e poi gradualmente riconosciuti. L’allora ministro del Lavoro Brodolini affidò il compito di elaborare il testo di questa nuova legge al giovane giuslavorista Gino Giugni (compito sul quale ebbero di certo peso i movimenti del ’68 e l’autunno caldo del ’69). L’iter per l’approvazione della legge fu lungo e travagliato. Nel giugno del 1969 il testo contenente le ”Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento” fu presentato in consiglio dei ministri, in dicembre fu approvato dal Senato, quindi il 14 maggio dell’anno successivo dalla Camera.
Lo Statuto dei Lavoratori non è solo articolo 18. Tra le più importanti innovazioni legislative possiamo ricordare l’articolo 1 relativo alla libertà di opinione che sancisce il diritto dei lavoratori di poter manifestare liberamente il proprio pensiero nel rispetto della Costituzione nei luoghi dove prestano la loro opera; l’articolo 8 sul divieto di indagini sulle opinioni dei lavoratori; l’articolo 14 che riconosce il diritto di costituire associazioni sindacali e di svolgere attività sindacale a tutti i lavoratori nei luoghi di lavoro.
La “tutela reale” approntata con l’articolo 18 b(come modificato dalla l. 108/1990) prevede per il lavoratore che venga licenziato illegittimamente la “restituzione” del rapporto di lavoro. In concreto, il lavoratore licenziato illegittimamente avrà diritto a veder ripristinato giuridicamente il rapporto di lavoro, ad essere reintegrato materialmente nel posto di lavoro e ad ottenere il risarcimento dei danni, in primis patrimoniali (le retribuzioni non percepite) subiti a causa del licenziamento. In sede giurisdizionale, quindi, il giudice dovrà, in riferimento al caso di specie, accertare l’illegittimità del licenziamento che in concreto potrà essere causata da 3 possibili vizi:
– Inefficacia del licenziamento disposto violando i requisiti di forma (forma scritta e comunicazione dei motivi);
– Difetto di giustificazione del licenziamento (inesistenza di un giustificato motivo o di una giusta causa);
– Nullità del licenziamento (quando discriminatorio).
Da ricordare anche l’ipotesi del licenziamento collettivo disposto in violazione degli obblighi formali e/o procedurali e dei criteri di scelta previsti dalla normativa relativa all’istituto in questione.
Quindi, in caso di sentenza emessa sulla base dell’articolo 18 il giudice innanzitutto dichiarerà giuridicamente ripristinato il rapporto di lavoro estinto con il licenziamento illegittimo. Questa è la tutela specifica che va ad assicurare al lavoratore il riottenimento del bene perduto a causa dell’atto illecito.
Il giudice, poi, condannerà il datore di lavoro a procedere alla reintegrazione materiale del lavoratore nel posto di lavoro attraverso il reinserimento effettivo all’interno dell’azienda e dell’organizzazione del lavoro. Su questo punto c’è da dire che non potendosi adoperare gli strumenti dell’esecuzione forzata, essendo il fatto che al lavoratore venga empiricamente permesso di lavorare un “comportamento infungibile”, quest’ultima previsione giudiziale è rimessa alla volontà del datore di lavoro che pur tuttavia sarà obbligato a dover corrispondere la retribuzione al lavoratore (che, inoltre, potrebbe poi successivamente chiedere il risarcimento per i danni professionali cagionatigli).
Il giudice, infine, condannerà il datore di lavoro al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore a causa del licenziamento inefficace o invalido, con la previsione di una indennità commisurata alla retribuzione di fatto calcolata partendo dal giorno del licenziamento a quello di effettiva reintegrazione. Condannerà inoltre il datore di lavoro al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento a quello della reintegrazione. Nel complesso il risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mesi di retribuzione globale di fatto.
Gennaro Dezio