La risolutezza con cui Michelstaedter, nel suo “Dialogo della salute” fa dire a Rico “O sì o no. (…) O vivere o non vivere”, ricorda le prime frasi de “Il mito di Sisifo” di Camus:

“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie – viene dopo. Questi sono giuochi: prima bisogna rispondere.”

Carlo Michelstaedter, nato a Gorizia da una famiglia ebraica il 3 giugno 1887 e morto a soli 23 anni il 17 ottobre 1910, dedicò parte dei suoi sforzi filosofici a rispondere questo interrogativo. Lo fece con il massimo del rigore e del coraggio:

“(…) convien guardar in faccia la morte e sopportar con gli occhi aperti l’oscurità e scendere nell’abisso della propria insufficienza — venir a ferri corti con la propria vita.”

Ciò che colpisce nella sua opera è proprio la serietà con cui affronta le questioni per lui più rilevanti. Alberto Asor Rosa parla della “sua esortazione a possedere dentro piuttosto che conquistare fuori” e del suo “contrapporre la felice consapevolezza del dolore alle false consolazioni della vita sociale.”.

Per questo, considerando l’idea del suicidio nel “Dialogo della salute”, uno scritto nella tradizione dei “Dialoghi” di Platone e delle “Operette morali” di Leopardi, Michelstaedter mette in guardia sul momento in cui “il pensiero (…) si ferma, e accarezza l’idea del suicidio, e comincia a pensare all’impressione che avranno gli altri”. Michelstaedter critica proprio questo bisogno di “apparire”, di “convincere” (concetto chiave anche nella sua opera “La persuasione e la rettorica”, nella quale “la persuasione” è inanzitutto verso sé stessi, mentre la “rettorica” è quasi una “violenza” sull’altro”) e forse questo è uno dei motivi per cui non fu molto attratto dall’ambiente vociano di Firenze, città nella quale visse per motivi di studio.

La sua morte ha fatto sì che molti interpretassero il suicidio di Michelstaedter come un suicidio filosofico. Con questo tipo di approccio però, si rischia di semplificare la visione del filosofo di Gorizia. Infatti lui stesso, nel “Dialogo della salute”, guarda scettico chi pensa alla morte come ad una soluzione secondo il ragionamento che, poiché la vita consiste nell’avere dei bisogni e non poterli mai realizzare, essendo la morte libera da bisogni, la morte è da preferirsi alla vita. Tale ragionamento, però, è smontato dallo stesso Michelstedter che spiega come, non essendoci, nella morte, “coscienza”, è vero che non ci sono bisogni, ma non c’è neanche il modo di “apprezzare” questa assenza di bisogni. Chi si uccidesse per questo motivo, farebbe come, scrive Michelstaedter, “uno che per sfuggir alla minaccia delle fiere entrasse nel covo della tigre”.

La filosofia di Michelstaedter è più quella che vede una dura accettazione della realtà e, in questo senso, è simile all’atteggiamento che avrebbe poi assunto Camus qualche anno più tardi. Quando lo studente di Gorizia parla del “diritto di non farsi convincere” ricorda l’uomo assurdo di Camus che rifiuta di “saltare”, ovvero di farsi convincere a compiere un atto di fede.

Altre parole dal “Dialogo della salute” di Michelstaedter ci possono aiutare a comprendere meglio la sua posizione, che fugge con orgoglio dalle consolazioni e dalle semplificazioni:

“La tua ultima parola è stata «morte» e la tua bocca s’è riaperta per dir «ma». Con quella dicevi di non aver più nulla da chiedere, ed ora riparli per chiedere un appoggio, per chiedere una via. Ma non c’è appoggio, ma non c’è via, non c’è niente da aspettare, niente da temere, nè dagli uomini nè dalle cose. Questa è la via.”

Michelstaedter, che tra le altre cose ha scritto “chi ha la sua vita nel presente, la morte nulla toglie”, si suicidò a 23 anni, dopo aver ultimato la sua tesi di laurea dal titolo “La persuasione e la rettorica”. Asor Rosa, nella sua “Storia europea della letteratura italiana” parlò di lui accostandolo a Dino Campana, identificando in loro le “zone d’ombra della cultura italiana del primo Novecento”.

Come sottolinea Asor Rosa, il merito della pubblicazione dei suoi scritti va ai compagni di corso del filosofo di Gorizia, quei Vladimiro Arangio-Ruiz e Gaetano Chiavacci che intuendone il valore curarono “Dialogo della salute” e “Poesie” (1912) e “La persuasione e la rettorica” (1913).

Al di là della morte precoce – che rischia di farlo apparire come una sorta di Ian Curtis della letteratura italiana – la lezione di Michelstaedter è quella di un serissimo filosofo che, prendendo le mosse da Parmenide (la cui riscoperta sarebbe stata un riferimento fondamentale anche dell’opera di Emanuele Severino), Eraclito e altri classici del pensiero greco (in questo, Asor Rosa vede una somiglianza con il giovane Nietzsche), ha proposto una filosofia lontana dalle mode dei caffè letterari del suo tempo, forse anche ai margini (o al di sopra) della storia, ma sempre guidata dall’amore per la verità nella ricerca e nella conoscenza di sé stessi.

Luca Ventura

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