La coppa dalle grandi orecchie ritorna in Inghilterra, ritorna a Liverpool dopo quasi 14 anni. L’artefice dell’ultima grande impresa fu quel Rafa Benitez, che, dalla leggendaria finale di Istanbul vinta ai calci di rigore contro il Milan, è rimasto per sempre nei cuori dei tifosi dei Reds. Un posto speciale che da sabato lo spagnolo dovrà condividere con Jurgen Klopp. Certo, lo spettacolo della finale di Istanbul del 2005 è qualcosa di diverso da quella di sabato, per le semplici modalità con cui era giunta la vittoria. Rimontare un 3-0 in una partita sembra un’esperienza al limite dell’impossibile, figuriamoci quanto lo sia in una finale di Champions.  Quella con il Tottenham è stata una partita vissuta in un equilibrio, che sembrava spezzato dopo solo 25’’ e che, invece, ha quasi paralizzato entrambe le squadre nella classica finale che mette di fronte chi ha paura di essere rimontato e chi ha paura di subire troppi gol. Nonostante ciò, non si può dire che non sia stata una vittoria meritata quella del Liverpool, anzi. Ha rispettato, almeno dal punto di vista della classifica, i parametri di una Premier League che il Liverpool, insieme al Manchester City, ha dominato da inizio stagione. I 26 punti di differenza sono emersi tutti in campo per qualità dei singoli e per la sicurezza mostrata in campo dai singoli, che ha consegnato a Klopp il suo primo, meritatissimo trionfo europeo.

La sesta Champions League del Liverpool diventa, perciò, più di ogni altro il trofeo di un allenatore che, subentrato a Brendan Rodgers, è riuscito prima di tutto a dare un’anima alla sua squadra (si pensi al memorabile quarto di finale di Europa League tra  Liverpool e Borussia Dortmund nel 2016), e poi un gioco incredibile fatto di pressing alto, instancabile e di rapidissime verticalizzazioni che spiazzano e soffocano le difese avversarie. Il tutto mischiato alla capacità di Klopp di saper imparare dai suoi errori. Il Liverpool di sabato, ma più in generale il Liverpool di quest’anno è apparsa una squadra profondamente più sicura di sé, lontana parente di quello stessa squadra che un anno fa contro il Real fu incapace di reagire all’infortunio di un giocatore cardine come Salah. Una testimonianza della clamorosa potenza di questo Liverpool non può non essere la storica rimonta al Barcellona in semifinale, tra l’altro riuscita proprio senza il giocatore egiziano, che rende questa sesta  Champions League non meno romantica della quinta.

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Si aggiungano poi gli accorgimenti che nel tempo hanno reso il Liverpool la corazzata europea. È un percorso che, come visto, nasce sul finire del 2015 si concretizza a piccoli passi.  Si parte dal talentino di casa: Alexander Arnold, che insieme al suo “collega” di fascia opposta, Robertson, ha costituito uno dei punti di forza di questo Liverpool. Per una difesa alta come quella del Liverpool, Arnold non è solo un terzino in grado di spingere, ma di mantenere equilibrio e di compiere quelle decisive rincorse e diagonali in grado di stanare la profondità che due centrali lenti come Matip e van Dijk non riuscivano a coprire.

Proprio lui, il tanto criticato van Dijk, accusato di essere stato pagato uno sproposito, diventa un tassello fondamentale per dare equilibrio, sostanza e carattere ad una difesa troppo disattenta e impacciata. Il suo carisma, i suoi centimetri e anche il suo senso del gol diventano elementi indispensabili e rendono perfettamente l’idea del perché i Reds si siano spinti fino a 75 milioni di sterline per averlo, rendendolo ad oggi il difensore più costoso al mondo. Ma la vera crescita del Liverpool, non può non passare per quello che da molti, all’epoca, fu visto come un vero e proprio suicidio di mercato: la cessione di Coutinho al Barcellona nel 2018. È un passo determinante per la storia di Klopp.

Dal solista lirico, inizia a suonare l’orchestra intera. Salah si esalta, Mané emerge, Firmino segna. Il Liverpool diventa una bestia micidiale, che quell’anno contro ogni aspettativa arriva in finale di Champions. Ma c’è un altro tassello da aggiustare e del quale non si ha ancora consapevolezza: la porta. Gli errori del giovane ed inesperto Karius diventano decisivi in quella sciagurata finale persa contro il Real Madrid per 3-1. Il Liverpool  decide di investire ben 60 milioni, ma anche qui il fiuto di Klopp e dei suoi collaboratori ci prende. Alisson è quel portiere affidabile che serviva al Liverpool: le parate di sabato su Son ed Eriksen, in un sprazzo di dominio degli Spurs, sono state decisive.

 Le scelte tecnico-tattiche, gli investimenti azzeccati a rendere grande un allenatore come Klopp. La verità è che il tedesco si cala fin da subito nella dimensione Liverpool, migliorando di anno in anno prestazioni e piazzamento. Sposa letteralmente la causa restando semplicemente se stesso.  Non cambia mai. Non si crea ansia da prestazione, nonostante le due finali di Champions perse.  Ad affermarlo è lui stesso nella conferenza stampa della vigilia attraverso una calma, una simpatia e una schiettezza che sono rare da trovare in allenatori che si apprestano a preparare una finale di quel genere. L’atteggiamento di Klopp diventa non solo lodevole, ma quasi una lezione di vita. Non importa quante volte si cada, l’importante è rialzarsi e riprovarci ed è possibile che la terza volta sia quella buona, quella che ti fa diventare davvero il più grande di tutti.

Fonte immagine in evidenza: Goal.com

Giovanni Ruoppo

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