Un nuovo panorama italiano festeggia la calata del sipario direttamente dagli studi televisivi di Barbara D’Urso, leader incontrastata della cronaca impietosa con cui si cibano nonnine, casalinghe disperate e preadolescenti odierne. A capo di questo “stil novo” dei costumi è Matteo Renzi, che vagheggia una trasparenza del sistema svendendo ciò che restava dell’adeguatezza dei comportamenti politico-mediatici di una sinistra degna di tal nome.
D’altronde, egli è la figura carismatica secolare. Il nulla travestito da niente: dalla promessa berlusconiana e la stravaganza conformistica. Eppure, nonostante la caparbietà con cui a volte si ostenta la sottovalutazione del nostro premier, ci si dimena in battibecchi poco fruitivi senza ricordarsi dell’avvertimento storico di Platone in merito alla libertà nella democrazia, o meglio al paradosso che vi s’instaura. Stiamo parlando del business della libertà, secondo cui in termini Foucaultiani esiste inclusione solo tramite accesso al consumo. Un po’ come il patetico tentativo di concedere i famosi ottanta euro a chi ha sempre pagato le rate di qualcosa, per ripristinare il briciolo di circolazione monetaria appartenente ai desideri del ceto in via d’estinzione, il cosiddetto ceto medio borghese, sui cui l’Italia ha a lungo mantenuto il patriottico ideale di sentirsi umili benestanti.
Cari lettori, ci troviamo di fronte ad un periodo epocale, dove a un centenario dalla prima grande guerra, possiamo confrontare le ostilità territoriali tipiche di quel periodo, mischiate all’atrocità dell’intolleranza mentale usata con la creazione dei campi di sterminio successivi. E, a oggi, la più grande arma di distruzione si chiama globalizzazione: oramai ulteriore forzatura ad innescare cambiamenti lì dove si è già affondati nella crisi. Senza tralasciare la perdita dei valori, quella inculcata dai reality show e dai link inefficienti di facebook, o che si propaga nei sabato sera quando i cinema scompaiono e ad affittare i locali sono i sognatori dell’America che non badano più al posto da colonizzare, quanto più al fine economico che se ne produce ristorando serate e cerimonie.
Platone scriveva che “la libertà consiste nell’essere padrone della propria vita e nel fare poco conto delle ricchezze”; ma banalizzare il fenomeno delle masse che si affidano al tiranno rinnegandoi valori democratici sarebbe riduttivo, se non aleggiasse nell’aria un pericolo di fascismo alle porte. Poi della critica di Platone allo stato d’ignoranza verso la piena libertà, poco ci rimarrebbe se non valutassimo la petulante ostinazione verso la teoria totalitaria analizzata dal filosofo Popper. Che dire quindi, se non dar voce, anzi, alla profetica sentenza di Platone: viviamo nella democrazia che avanza con l’illogica ragione che tutto sopporta in cambio del mero piacere personale; che riduce a poco e niente le ideologie nascoste fra le righe di cultura e va permeando l’emblema dell’uguaglianza dei diritti, o meglio nell’uguaglianza nella mancanza dei diritti, sabotando uno stato di poveri nella ripresa di una nuova crisi: il regime che si rovescia, la volta buona di cambiare verso, giusto per fare più figlie le oscenità di schiavitù commerciale delle care democrazie. Senza più provare a richiamare la storia, ma scontandola ad un frivolo passato che pare ordigno in procinto all’ennesima esplosione, ma attutita da musichette dei festival d’onore come la Leopolda.
“Quando un giovane, senza cultura e nella parsimonia, comincia a gustare il miele dei fuchi e frequenta fiere capaci di escogitare piaceri d’ogni sorta, la sua natura oligarchica si fa democratica. E con lui, si caccia in disonorevole esilio il pudore chiamandolo dabbenaggine, si espelle la temperanza dicendola viltà e coprendola di improperi. E sostenuti da molti e vani appetiti, si mettono al bando la moderazione e lo splendore modico facendolo passare per rusticità e grettezza. [..] così chiamano la tracotanza buona educazione, l’anarchia libertà, la sregolatezza magnificenza e l’impudenza coraggio.”
E quanta beatitudine, nasconde gli aggettivi di ignoranza e incomprensione. Però Platone ci mise in guardia: “a distruggere la democrazia è l’insaziabilità provocata dall’avarizia, ciò che essa definisce un bene, la libertà. In uno stato democratico sentirai che la libertà è il bene migliore e che soltanto colà dovrebbe abitare ogni spirito naturalmente libero”. Ma quando la libertà diviene prettamente l’accesso al consumo, dimenticando pari diritti e dignità di sopravvivenza decente? “Ebbene, l’insaziabilità di libertà e la noncuranza del resto, non mutano la costituzione preparandola a ricorrere fatalmente alla tirannide?”
Alessandra Mincone