In “Uomini e topi“ John Steinbeck costruisce una vicenda intessuta di immagini bibliche e ancestrali, caricando un romanzo particolarmente breve di un significato pregnante e fortemente simbolico.
Il cuore della narrazione è il duro lavoro, inteso come una fatica che è capace di distruggere un uomo sia dal punto di vista morale che fisico, un’attività che quindi modella e plasma sia il corpo che la mente e riesce a penetrare fino in fondo all’anima.
Steinbeck guarda tutto questo in modo ambivalente.
George Milton e Lennie Small sono giovani braccianti stagionali che si guadagnano da vivere con il proprio umile lavoro e vagando per il paese di fattoria in fattoria. I due condividono un sogno: acquistare un piccolo appezzamento di terra in cui poter vivere liberamente, senza più sottostare ad alcun tipo di umiliazione.
Il lavoro diventa quindi un’arma a doppio taglio: è sia strumento per ottenere la libertà e l’autoaccettazione sia una pratica degradante e opprimente, una costrizione dalla quale dover fuggire.
Ma questa dicotomia si apre a un terzo elemento poiché il futuro tanto agognato da George e da Lennie, quel locus amoenus che sperano possa diventare il loro personale Paradiso, si costruisce ancora una volta sul lavoro, ma qui interpretato come un’attività ricreativa, capace di stimolare e di rallegrare con i suoi frutti.
George e Lennie sono due personaggi agli antipodi. Lennie Small ha un nome in completa oppositio rispetto alle sue connotazioni fisiche. È il classico gigante buono, dotato di una forza oltrenatura che non riesce a controllare, si comporta come un bambinone perché affetto da un ritardo mentale che in alcuni atteggiamenti sembra riprodurre quella purezza e quella bontà d’animo di cui Forrest Gump è diventato emblema. La mente del duo è George, un ragazzo smilzo ma machiavellico, dimostra costantemente una maturità che non è propria della sua età e veste i panni dell’educatore di Lennie in quanto figura autoritaria, nel lavoro come nella vita.
Così Steinbeck li delinea come il braccio e la ratio e, con i pochi strumenti che hanno a disposizione, li fa avanzare in un mondo arido. Come due cavalieri medievali i nostri protagonisti percorrono step dopo step le loro avventure immergendosi in mondi (nel loro caso in ranches) del tutto nuovi, cercando di farsi valere per avvicinarsi sempre un poco in più all’epilogo del loro estenuante viaggio.
«Gente come noi, che lavora nei ranches, è la gente più abbandonata del mondo. Non ha famiglia. Non è di nessun paese. Arriva nel ranch e raccoglie una paga, poi van in città e getta via la paga, e l’indomani è già in cammino alla ricerca di lavoro e d’un altro ranch. Non ha niente da pensare per l’indomani.»
Claudio Gorlier commenta il titolo del romanzo partendo dai versi di Burns da cui esso è ricavato. Steinbek accennerebbe quindi ai «piani architettati da uomini e da topi che spesso sortiscono cattivo esito, e invece della gioia promessa recano null’altro che dolore e sofferenza.»
I riferimenti biblici che a man mano vengono svelati dalla filigrana del racconto (di cui, il più simbolico è l’episodio conclusivo in cui la fonte della peccaminosa tentazione viene eliminata dal più puro di tutti), comunicano il mistero dell’esistenza e l’imprevedibilità delle forze che governano la vita e il lavoro. Questo è il centro dell’universo dipinto da Steinbeck, di cui la coppia Lennie-George (protagonisti di una favola ossessiva e fatalmente ciclica) ne è il nucleo.
Seguendo il fil rouge della dignità della vita resa tramite le azioni (e quindi al lavoro) dell’uomo, Steinbek racconto dell’istinto bestiale di Lennie, dell’intelligenza dolorosa di George, dell’ingiusta e drammatica alienazione dell’uomo di colore Crook, della peccaminosa seduzione della moglie di Curley (il padrone del ranch) e dello stesso figlio di Curley, simbolo di nepotismo, di violenza e di ingiustizia sociale e nel lavoro. L’autore snocciola uno a uno ogni spunto che la vita gli offre e pone tutti questi ostacoli in quel percorso apparentemente rettilineo di Lennie-George, ma che in realtà è sudato e sofferto.
Non è un caso che la mente del duo faccia riecheggiare il tremendo riferimento al Paradiso Perduto: per gli ultimi ogni dono è troppo grande, ogni risultato è una vittoria (che sia un tozzo di pane o l’oblio da attraversare con il ricordo di un amico), ogni fatica è un mattoncino da apporre a quella scalata sociale che, si spera, un giorno potrà concedere quella dignità della vita tanto agognata. Il lavoro è l’emblema di tale percorso in quanto si concretizza in una faticosa e ingiusta scalata che, si spera, un giorno potrà condurre alla felicità.
Alessia Sicuro