Nato a Ferrara nel 1930, Folco Quilici ha ssvelato la terra attraverso i suoi eloquenti documentari, film, ma anche con i suoi libri. Quindi definirlo semplicemente documentarista è un po’ riduttivo: era invece un uomo che ha raccontato con assoluta maestria aspetti del mondo, soprattutto della gente, angoli della terra primitivi e sconosciuti e popolazioni estranee, in diverse misure, al progresso e alla scienza avanzata. Uno dei temi ricorrenti nei suoi documentari e film era il rapporto tra l’uomo e la natura, raccontato senza fanatismi, cercando proprio di combattere la banalità e il flusso spesso deleterio del progresso. Oggi parlare d’ambiente è diventata una moda, molte volte estremamente sbagliata, perché il problema dell’uomo con la natura è nella coincidenza di mille punti tutti inerenti tra loro, ma anche nel modo in cui l’uomo si rapporta all’ambiente che lo circonda. Maestro del documentario, scrittore, regista, narratore di avventure lontane e avventure marine, Falco Quilici è stato uno dei più grandi narratori contemporanei di quanto si nasconde nei fondali di mari e oceani di buona parte del mondo. Già negli anni cinquanta immergeva la sua telecamera nei meandri del mare, alla ricerca di fondali sconosciuti ma sicuramente sorprendenti e, per questo, divenuto celebre anche fuori dai confini nazionali.
Lui stesso dichiarava di non saper definire la propria posizione e, infatti, a quanti gli chiedevano se fosse un giornalista, uno scrittore o un documentarista, rispondeva imbarazzato di non sapere esattamente che ruolo attribuirsi. L’ambiente familiare nel quale Quilici era cresciuto vedeva il padre scrittore e noto storico e la madre impegnata come paesaggista e fotografa: quindi un ambiente ricco di spunti interessanti e colmo di compromessi artistici-storici e indubbiamente culturali. A Nello Quilici, Folco ha dedicato un libro, scritto ben sessantaquattro anni dopo la sua morte, nel quale racconta la tragedia aerea durante cui il padre morì, a pochi giorni dall’entrata in guerra dell’Italia mentre sorvolava su un trimotore, con Italo Balbo, la città libica di Tobruk.
La caratteristica preponderante di Folco Quilici era il saper documentare in modo semplice e diretto, attraverso delle immagini ricche di significato intrinseco. Scattare delle foto o filmare dei video può essere semplice ma caricare quelle stesse immagini di significato esponenziale e artistico, facendo in modo che esse quasi parlino, non è lavoro facile. Egli documentava con sapienza, attraverso immagini visive e sonore, raccontando con l’anima quanto avesse visto o conosciuto nel mondo. Il principio fondamentale alla base dei suoi documentari e delle sue scoperte era che, inevitabilmente, la natura muta nel tempo e quindi la consapevolezza di una metamorfosi che caratterizza tutta la realtà circostante l’uomo, e nella quale egli vive, da un punto di vista culturale, sociale, storico, politico e fisico.
La sua vita è stata dedicata all’ambiente, con una particolare attenzione al mare; nel 1952 partì alla volta del Mar Rosso, dove fotografò e raccontò l’esistenza degli yemeniti in un libro e poi in un film. Nel 1956 raccontò la storia degli ultimi pescatori di perle, negli atolli del sud Pacifico. Una vita di viaggi, di scoperte, di sorprese, di immagini minuziose ma notevolmente dense di vita comune, di sapore arcaico e incontaminato.
L’anno dopo, nel 1957 produce “L’ultimo paradiso“. Il film, Orso d’argento al Festival di Berlino, rappresenta un documentario naturalistico ma, al contempo, un racconto d’avventura e un lavoro antropologico minuziosamente descritto grazie all’ausilio fotografico. Ambientato nelle isole del Pacifico meridionale, il lungometraggio non mostra unicamente la bellezza evidente propria di quei luoghi ma descrive anche la quotidianità delle popolazioni indigene, inserendola in un contesto narrativo fortemente realistico.
La penna, la macchina fotografica e la cinepresa (poi adattata e divenuta videocamera, così come le immagini in bianco e nero divenute a colori) sono sempre stati gli strumenti da lavoro di Quilici, immerso in una sorta di impegno a tre dimensioni: acqua, terra e cielo. Tuttavia, è da apprezzare il notevole impegno del noto documentarista, soprattutto in un’epoca, quella attuale, nella quale la comunicazione ha assunto nuove forme, più dirette e intuitive. L’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, quali la televisione, la radio e soprattutto internet, ha reso molto più semplice l’accesso a svariate forme di intrattenimento e più veloce la fruibilità di contenuti un tempo ricercati ed esclusivi. Colpire l’attenzione dello spettatore è diventato un processo più diretto e immediato rispetto al passato, minando alle basi di generi come quello dei docufilm. Ma Quilici, da grande esperto quale era, è riuscito a proiettare immagini lontane nel tempo e nello spazio, esplorando con mente e cuore, specialmente con sguardo attento, mondi distanti e differenti dal nostro. Con lui va via una parte fondamentale propria di quest’arte e di processi tanto importanti quanto ormai rari.
In una intervista Quilici dichiarò: “Oggi ci interessa meno il meraviglioso, l’inedito, l’irraggiungibile. Pretendiamo però di salvare il pianeta. Comodamente seduti in poltrona!”. Probabilmente l’inedito e l’irraggiungibile interessano meno perchè sono a portata di mano, basta accendere la televisione e trovare ciò che cerchiamo, oppure collegarsi ad internet, per reperire informazioni o dati.
Grazie al suo immenso lavoro da documentarista, è nata una vera e propria cultura ambientalista rivolta alla natura, alle bellezze in essa contenute, ai colori, alle tradizioni, agli usi di terre vicine e lontane. Quilici fotografava e filmava una realtà percorsa da pratiche diverse, con occhio critico e creativo al tempo stesso, trasformando la narrazione e il messaggio in vera e propria comunicazione rivolta a un messaggio per il mondo dal carattere ecosostenibile.
Nella ricerca di immagini, suoni, Quilici ha sempre ricercato non solo la bellezza, ma soprattutto la verità e, dunque, anche il lato oscuro di determinate realtà, mostrandolo senza paura e dimostrandone l’esistenza, senza chiudere gli occhi e con saggezza e tenacia. Quindi significa ammirare le bellezze, non in astratto ma salvaguardandole; facendo attenzione sia alle cosiddette biodiversità che caratterizzano l’ambiente, sia allo sviluppo sostenibile. Che sia da insegnamento per tutto.
Morto il 24 febbraio, avrebbe compiuto 88 anni a breve. Ha inondato tutti i suoi spettatori e ammiratori di immagini e frame meravigliosi nella loro semplicità.
Gerardina Di Massa