Si è consumato da pochi giorni l’anniversario dell’uscita de Il Gladiatore. Son già passati diciasette anni, ma i segni lasciati nell’immaginario sono ancora molto profondi.

Il gladiatore, una figura restituita all’immaginario collettivo, anche per chi di storia non se ne intende, grazie al capolavoro omonimo di Ridley Scott. Un film che ha ridato linfa al genere peplum- contaminato per l’occasione con dell’ottimo thriller storico – e che ha proiettato nelle grazie di Hollywood – legittimamente – due attori come Russel Crowe e Joaquin Phoenix.
La storia si dipana proprio a partire da queste due figure. Il primo, Russel Crowe, che incarna un ex generale romano, l’indimenticato Massimo Decimo Meridio che, vittima del tranello ordito dal malvoluto erede al trono Commodo (Joaquin Phoenix), si trova a diventare uno schiavo, nella fattispecie un gladiatore, figura disgraziata – come racconta bene il film – equiparata a semplice fenomeno da baraccone e adibito unicamente al sollazzo del popolo e dei potenti.

Da questa caduta iniziano le peripezie di Massimo, un’epopea fatta più discese che ascese trionfanti, ma che in entrambi i casi sanno vellicare le corde dell’emozione; tutto ciò grazie ad una diegesi logica e mai pesante, una sceneggiatura asciutta e di spessore volta a elevare la figura virtuosa del gladiatore – per cui difficilmente non si potrà fare il tifo o semplicemente raggiungere un’empatia. Se, poi, a dargli il volto è un austero e carismatico Russel Crowe, in grado di mostrare anche un lato tenero con quel sorriso sghembo quando pensa alla famiglia, la partita è praticamente vinta. Il personaggio che interpreta , infatti, ha un grande talento: è un condottiero vincente e rispettato ma che forse vorrebbe fare altro – come tornare a coltivare la sua terra e prendersi cura della sua famiglia.

Un talento che gli darà addirittura la possibilità di governare Roma, almeno nelle intenzioni dell’Imperatore uscente, a discapito del naturale erede, Commodo, cosa da cui scaturirà l’odio del secondo verso il primo.

E quindi Commodo diventa il cattivo perfetto. Un cattivo la cui malvagità non ha origine dalla genetica o da qualche astruso motivo, ma dalla debolezza, dal non sentirsi all’altezza di ciò che il destino gli aveva promesso o solamente fatto presagire – quindi un cattivo più umano di quanto si possa immaginare.

Il Gladiatore, inoltre, è interessante non solo per la messinscena delle guerre o delle lotte fra gladiatori, ma soprattutto per come cerca di far proprio, e quindi trasporre, il modus vivendi dell’Antica Roma. I nostri protagonisti sono personaggi i cui percorsi seguono spirali logiche in linea con quella coscienza esternalizzata caratteristica dell’età classica. Una delle poche cose a contare in quei tempi andati era, infatti, la pubblica stima, il sentirsi amato e apprezzato dal popolo o dai conoscenti, cosa che spiega, nelle realtà, la sprezzo verso la morte degli antichi e, nella pellicola, i motivi delle azioni di Commodo.

E, parliamoci chiaro, cosa c’è di meglio per imprimere il proprio nome nella memoria collettiva di un gesto eroico? Per gli antichi romani, e per i greci qualche secolo prima, la peggiore delle condanne era quella di diventare dei nonumnoi, ovvero dei “senza nome”, individui di cui dopo la morte nessuno ne avrebbe rammentato. Perché la vera morte per gli antichi era l’oblio, la dimenticanza. E le loro azioni, le loro scelte, erano tutte orientate a scongiurare questa tragica evenienza.

“Quello che facciamo in vita riecheggia nell’eternità” urla, infatti, un prode Massimo alla sua legione, come a voler sottolineare questa convinzione. Quindi la morte non viene allontanata, ma accolta, quasi agognata quando non ci sono più legami in terra (vedasi Massimo dopo aver perso i suoi affetti).

Azioni e percorsi biografici, quelli di Massimo e Commodo, che diventano inevitabilmente mediatici. Sono figure pubbliche, uno un gladiatore che fa spettacolo, e lui un imperatore, intenzionati – per motivi diversi – a ingraziarsi il pubblico. Cosa confermata dalle parole di  Lucilla Augusta: “se hai il popolo hai Roma”, una bella iniezione di democrazia rappresentativa che forse paga qualche incongruenza storica (nel film si vuole riportare Roma alla Repubblica, cosa che non è mai stata, in quanto molto più simile ad un’oligarchia, ai tempi).

Ma poi Commodo e Massimo sono mai esistiti? Ebbene, sì. Commodo è stato uno dei nefasti imperatori di Roma, forse molto più viziato e pieno di sé di come viene raccontato nel film dove è, invece, un ragazzo imberbe particolarmente fragile sul versante emotivo. Mentre Massimo in realtà si chiamava Narcisso, e la sua storia è molto più prosaica e meno eroica di quella di Russel Crowe. Lui era un semplice gladiatore che fece da maestro d’armi per Commodo e che, alla fine, lo uccise in uno dei bagni dei suoi alloggi. Quindi merito di Ridley per come l’ha rappresentato ma la sceneggiatura non è proprio tutta farina del suo sacco (ma quale storia lo è?).

Infine, ciò che da quel tocco di più al film, al netto di qualche blooper grossolano come il “Massimo” urlato da Juba prima dell’agnizione del gladiatore o la macchina da presa che si intravede nelle prime scene del film, è sicuramente la colonna sonora di Hans Zimmer, che sa cosa vuol dire rendere, allo stesso tempo, epico e tellurico un film. Peccato che la stessa sia stata banalizzata nel corso degli anni divenendo anche la soundtrack di uno spot di una rinomata marca di biscotti.

In conclusione, chi scrive, ha rivisto Il Gladiatore almeno una dozzina di volte e, ogni volta, non può non commuoversi nel vedere gli ultimi fotogrammi: la mano di Massimo che attraversa le foglie di asfodelo dei Campi Elisi con la sua famiglia che l’attende al varco, pronta a riabbracciarlo. E lui, felice, perché era l’unica cosa che voleva fin dal principio. Addirittura più della gloria eterna, contrariamente ai suoi coevi. E ciò lo rende molto più simile a noi che a quelle cariatidi dell’antichità.

Enrico Ciccarelli

Sociologo, specializzato in Comunicazione pubblica, sociale e mediale. Giornalista. Scrittore. Cinemaniaco, appassionato di storie.

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