Schengen non è stata l’eliminazione delle frontiere nazionali, ma semplicemente la loro sostituzione. Ai singoli confini che dividevano gli Stati dell’Europa, patria dei concetti forse di maggiore rilievo mai partoriti dal pensiero umano, ma anche dei più tetri e scuri, si è sostituito un unico grande confine.
Lo scopo di questo trattato era di eliminare la principale causa dei conflitti che hanno bruciato milioni di vite: i nazionalismi, dissimulati talvolta da ideologie malconcepite e travisate (basti pensare alla scorsa guerra jugoslava, nella quale non si è mai ben compreso come il nazionalismo serbo potesse convivere con la professione di fede dell’internazionale socialista), ed è stato il perseguimento di questo nobile scopo che ha consentito all’Unione Europea di ottenere il prestigioso riconoscimento del Nobel per la Pace, motivato dal fatto che “per oltre sei decenni ha contribuito all’avanzamento della pace e della riconciliazione della democrazia e dei diritti umani in Europa”.
Ed è stato proprio questo il suo grande difetto: avervi contributo solo dentro lo spazio europeo, creando una grande barriera che divide l’Europa dall’Africa e dall’Asia (non si può dire lo stesso rispetto agli USA, data la volontà di siglare l’accordo di libero scambio TTIP). Una barriera non solo politica, ma anche fisica: prima dell’Ungheria è stata la democratica Spagna ad alzare muri a Ceuta e Melilla, con il finanziamento dell’Agenzia Frontex (e dunque dell’Europa).
Il recente allarme creato da quella che per alcuni è l’invasione dei migranti ha rimesso in discussione questo trattato, creando due fronti contrapposti: un primo che difende l’idea di un’Europa senza confini interni, ma che intende creare una politica estera unitaria e non più basata sulla discriminazione dell’extracomunitario, capace di comprendere gli effetti che determinati atti possano avere in termini geopolitici; ed un secondo che invece ritiene sia giunta l’ora di un netto e deciso dietrofront: se Schengen ha fallito, ha fallito la stessa idea europea. L’Europa corre dunque su due binari non paralleli, percorsi da treni destinati ad arrivare ad un incrocio pericoloso.
Il primo fronte non è omogeneo, ed anzi le sue contraddizioni interne sono manifeste, con un altalenamento continuo tra un’idea di maggiore repressione interna ed uno strano concetto di accoglienza e responsabilità umanitaria. Così la Germania chiede di aprire le frontiere greche ed ungheresi, ma nel contempo chiede all’Italia di effettuare maggiori controlli sui migranti; la Francia chiede di aumentare il numero di migranti da ripartire nei territori europei, ma non è disposta ad accoglierne neanche uno che passi da Ventimiglia; l’Italia invece mostra tutte le sue insufficienze, limitandosi ad appoggiare le altrui proposte. Resta il problema centrale che non ci si può limitare a singole soluzioni per singole emergenze: serve una rifondazione dell’Europa.
Il secondo fronte è, per sua terra, più omogeneo. Non ha il problema di convivere con una propensione umanitaria ed un nazionalismo incancellabile: si arrende al secondo. Così Orban dice che “i migranti sono un problema della Germania” e li scarica dalla stazione di Budapest, minacciando inoltre il ripristino delle frontiere nazionali (una aperta violazione del diritto internazionale: ma è noto che il governo di estrema destra ungherese in politica estera si basi sulla massima secondo la quale i trattati sono fogli di carta); Cameron introduce il reato di immigrazione clandestina, con una novità: il clandestino potrà essere anche un cittadino comunitario se non avrà stipulato un contratto di lavoro nei primi sei mesi della sua permanenza (anche questa una aperta violazione dei trattati). Un piccolo passo verso l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, che potrebbe essere sancita dal referendum promesso dal primo ministro.
Vi sono poi altri Stati in Europa che vagano nel limbo diplomatico: la Spagna di Rajoy, che condivide la ripartizione dei migranti ma chiede di discutere dei parametri; la Grecia di Tsipras, che affronta l’emergenza in attesa delle elezioni nazionali che sapranno dirci quale sarà l’indirizzo governativo di Atene (in caso di vittoria di Syriza, probabilmente entrerebbe nel primo fronte: la penisola ellenica aveva chiuso i CIE, di cui adesso si richiede la riapertura); la Repubblica Ceca, che aveva numerato i migranti come sistema di identificazione (sembra che foto e impronte digitali siano meno affidabili); Malta (che tempo fa soccorreva i migranti in mare indicandogli la direzione per le coste siciliane) e l’Austria, che si dichiara pronta ad accogliere i migranti, ma sembra altrettanto pronta a fornire un biglietto di sola andata per la Baviera.
Vincenzo Laudani