Dopo tanta sofferenza e manovre “lacrime e sangue”, stavolta ci siamo. Anche il Fondo Monetario Internazionale rivede al rialzo, seppur di poco, le stime di crescita dell’Italia assieme a quelle di Madrid e Berlino. Appena ricevuti i dati, l’ottimista Renzi ha dichiarato “L’Italia è tornata ma è solo l’inizio”.

Situazione italiana

I dati nostrani del Fondo Monetario Internazionale stimano la crescita del pil italiano di +0,8% nel 2015 e +1,3% nel 2016, incrementando dello 0,1% le previsioni di luglio; una notizia ottima, ma in contraddizione con l’ultimo aggiornamento del documento di economia e finanza del Governo il quale riporta un +0,9% per il 2015, quindi poco differente rispetto alle previsioni del Fmi, ma dell’1,6% per il 2016. È doveroso ricordare che il nostro pil è diminuito del -0,4% nel 2014 e che la decrescita era una costante dal 2012, dunque un segno positivo non può che rendere tutti felici.

Disoccupazione. Se i dati precedenti sono confortanti, è pur vero che per tornare alla situazione pre-crisi occorreranno altri 15-20 anni secondo le stime di più istituti internazionali. Il perché di queste previsioni negative lo espongono i dati sulla disoccupazione: dopo il record negativo del 12,7% nel 2014, si attesterà al 12,2% quest’anno e calerà all’11,9% nel 2016. Le statistiche mostrano una situazione negativa in cui i non occupati saranno strutturalmente ben oltre il 10% nel prossimo triennio.

I dati provenienti dal Fondo mostrano anche un aumento dell’indebitamento 2015 previsto per quest’anno, che sarà del 2,7% rispetto al 2,6 del rapporto precedente, e quello del 2016 che sale dall’1,7 al 2%.

Le critiche delle opposizioni. Dopo la diffusione di questi dati, ovviamente, Governo e maggioranza hanno esultato, determinando una violenta critica delle opposizioni. Se il premier ha gridato alla ripresa dopo anni di sofferenza, le opposizioni hanno parlato di “ripresa dovuta a fattori esogeni” mentre la linea politica m5s è stata la più dura:

“Sicuramente uno 0,4%-0,5% della crescita può essere spiegato con i prezzi bassi del petrolio e la presenza di liquidità immessa dalla Bce. Uno 0,2-0,3% è dovuto al Giubileo che si terrà a Roma. Quindi ci chiediamo – concludono – qual è il reale contributo delle politiche governative? Pressoché nullo”.

Scenario internazionale

Stando al rapporto diramato ieri, quest’anno il pil mondiale registrerà una crescita del 3,1% (-0,1% rispetto alle previsioni di luglio), mentre l’anno scorso è aumentato del 3,6, ossia lo 0,1 in meno in virtù delle stime di luglio 2014. Il traino delle economie sviluppate sono sicuramente gli Stati Uniti con il loro +2,6% nel 2015 e del 2,8% nel 2016.

Benino Eurolandia. Il pil dell’area euro crescerà dell’1,5% nel 2015 e dell’1,6% l’anno successivo secondo l’Fmi, il quale abbassa anche di 0,1% le stime per il 2016. La crescita europea sarà trascinata da Madrid e Berlino, ma secondo esponenti Fmi “Nei prossimi anni l’Italia potrebbe crescere anche più della Germania”.

Paesi in via di sviluppo. La Cina registra una crescita del +6,8% nel 2015 e +6,3% nel 2016, contro il +7,3% registrato nel 2014. Le conseguenze del rallentamento cinese ricadranno sui Paesi esportatori di materie prime che analizzeremo successivamente.

Soffrono Russia e Brasile. Il secondo diminuirà il proprio pil del 3% quest’anno e dell’1% il prossimo, con stime di crescita al ribasso di 1,5 e 1,7 punti percentuali rispetto al luglio scorso, mentre la Russia nei prossimi due anni dovrebbe registrare un –3,8% (-0,4 punti sulle stime di luglio) e dello 0,6% (-0,8).

Il capitolo Cina

Il governo pechinese sta attuando una serie di riforme che dovrebbero finalmente contrastare le condizioni inumane dei suoi lavoratori, elargendo redditi più alti alle classi che spendono quasi il 100% della loro retribuzione in consumi, ossia quelle medio-basse. Questa trasformazione stabilizzerà l’economia cinese attraverso una robusta domanda di beni di consumo e di beni durevoli (auto e case), resa possibile solo da una maggiore produttività richiesta da un inevitabile aumento della domanda ed una minore dipendenza dalle fonte energetiche estere, motivo per cui Pechino incentiva la green economy ed il mercato energetico interno.

Se noi Occidentali vediamo questo processo come una conquista di civiltà, i dati economici conseguenti potrebbero essere un’ecatombe per i Paesi di sviluppo non-Brics, i quali registreranno nel 2015 una crescita del 4% rispetto al 4,5 del 2014 in quanto esportatori delle materie prime cinesi fino a ieri.

Un valido esempio è rappresentato dalla contrazione della produzione industriale cinese annunciata lunedì scorso, che ha determinato una caduta a picco della quotazione del rame, di cui la Cina consuma il 45% mondiale, portando ad un -21% a listino in un anno. Glencore è una multinazionale svizzera che detiene la quota più alta di produzione di metallo rosso ed oggi vale il 25% di quanto valeva nel 2011.

I rischi non ricadranno solo sulle multinazionali, ma soprattutto su Paesi come: Congo, Cile, Perù, Zambia, Mongolia, Australia e Usa. Mentre, però, Stati Uniti ed Australia hanno una produzione fortemente differenziata, i Paesi Asiatici ed Africani basano le loro economie quasi esclusivamente sull’esportazione di materie prime ai Cinesi: per loro potrebbe essere una vera catastrofe.

Ferdinando Paciolla

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