Sono un orribile essere umano.
Joe (Charlotte Gainsbourg) è distesa sul pavimento di una grigia cittadina, tumefatta e priva di sensi. La soccorre l’anziano scapolo Seligman (Stellan Skarsgård) che la porta a casa con sé, la cura, e nel mentre le chiede cosa -o meglio, chi- l’abbia ridotta in questo stato. Joe inizia a raccontare la sua vita, tutti gli errori e tutte le esperienze che l’hanno portata a quelle ferite, più emotive che fisiche.
La storia
La storia di Joe è raccontata attraverso flashback non sempre in ordine cronologico, con un sistema narrativo che tarantinamente suddivide la storia in capitoli, il cui titolo è il prodotto di sintesi dialettica tra la protagonista e il suo interlocutore. Infatti Seligman, ad ogni esperienza della donna che si è autodiagnosticata ninfomane sin dai primi anni della sua adolescenza, contrappone racconti di arte, letteratura, religione e musica, in uno scontro dialettico che più che opposizione può essere definito parallelismo, quasi come se ogni parola avesse lo scopo di riconciliare due mondi completamente opposti (banalmente collegabili al peccato e alla santità) mostrando come tutto ciò che Joe reputa sbagliato e anomalo nella sua vita promiscua sia solo uno dei tanti lati di un mondo che funziona sempre allo stesso modo.
Così il primo capitolo si intitola “Il pescatore perfetto” e vede il suo fulcro nel parallelismo che Seligman mette in risalto tra le tecniche di adescamento di uomini messe in atto da una giovanissima Joe e quelle della pesca; così più avanti l’attività sessuale della donna viene accostata alla polifonia, in quanto tre tra tutti i suoi amanti sono visti come le parti principali di una composizione polifonica, in cui ogni voce è indipendente dalle altre, ma tutte insieme danno luogo ad una composizione completa. Questo capitolo -che, inoltre, al rapporto sessuale accosta immagini del mondo animale, come una tigre a caccia- prende il nome “The Little Organ School“, da un volume di Bach, l’Orgelbüchlein. “Delirium” è il capitolo della morte del padre di Joe, chiamato così per la malattia che l’ha portato al decesso, delirium tremens, la stessa di cui era affetto Edgar Allan Poe, più volte citato nel corso del film; e ancora, “La chiesa d’Oriente e d’Occidente (L’anatra silenziosa)” deriva dall’asserzione di Seligman secondo cui la chiesa cattolica sarebbe la chiesa del dolore: infatti il simbolo più utilizzato nell’iconografia è il crocifisso, mentre in quella ortodossa l’immagine che più appare è quella della vergine col figlio, quindi questa sarebbe la chiesa della felicità, un perfetto parallelismo con la vita di Joe.
La morale
Ma Nymphomaniac non è solo una storia di ipersessualità. Anzi, da un film che si declamava “il porno girato da attori famosi” (nel cast anche Uma Thurman in uno dei suoi ruoli migliori con un soliloquio da antologia) il sesso è sì esplicito, ma non preponderante. È solo un’introduzione, la via d’accesso più cruda a temi ancora più violenti.
Nymphomaniac tocca tutte le corde della vita umana: scoperta di sé, esuberanza, dolore, perdita, amore, accettazione, masochismo, alienazione e redenzione. Lars Von Trier è stato attento a non mescolare tutti questi temi, ma a presentarne un quadro completo in un’escalation di durezza e brutalità, che nel finale sferra il suo colpo più duro, trasformando un percorso lungo e finito in uno scherzo, un gioco finito male, perché è questo il succo della vita: la violenza.
Una violenza che inizia con la perdita della verginità di Joe, spoglia di tutte le fantasticherie delle adolescenti, ma scandita dal numero dei movimenti dell’uomo su di lei. 1, 2, 3, 4… 5. Un dolore che continua dal punto di vista emotivo, con l’emarginazione sociale e la scoperta del suo amore per Jerome (“Tu riempi tutti i miei buchi” è la sua dichiarazione d’amore) che però scappa via con la segretaria del suo ufficio. Una piccola parentesi di felicità data dalla vita di coppia dei due, ritrovatisi anni dopo, e dalla nascita del figlio Marcel, interrotta dall’insoddisfazione sessuale di Joe e dalla scoperta del sadomasochismo, a cui inizia a dedicare tutto il suo tempo trascurando marito e figlio, che non rivedrà mai più. Il bambino, durante una delle tante assenze della madre, è uscito dalla culla e stava per cadere dal balcone, prima di essere trovato dal padre che lo porta via con sé.
È questo il punto di equilibrio della pellicola, dove dolore fisico e dolore emotivo coincidono, il punto cardine della narrazione, quello che ribalterà il quadro. E Von Trier non ha lasciato nulla al caso, scandendo questa scena in una nota autocelebrativa che risuona dell’aria Lascia ch’io pianga, chiaro riferimento ad Antichrist, il primo film della trilogia (di cui fa parte anche Melancholia), nel cui prologo vi è proprio il figlio della coppia protagonista che cade da una finestra dopo essere uscito dalla sua culla.
Da qui il film cambia direzione: la scena (che rientra nel primo capitolo del secondo volume) pone fine alla dialettica con Seligman, i cui interventi sono sempre più taciturni, e mostra la tentata riabilitazione di Joe in un corso per “sessodipendenti” e la sua sconfitta morale quando si rende conto di non poter essere salvata. Il degrado fisico a cui vanno incontro i suoi organi genitali per il troppo sfruttamento del corpo, il licenziamento che consegue la sua condotta promiscua in ambito lavorativo, il suo essere assunta come aguzzina da un usuraio sui cui clienti darà sfogo di tutta la sua violenza. L’affetto che nutre verso una ragazzina che cresce come figlia e ama come amante (anche carnalmente) che però le urina in faccia -letteralmente- dopo averla pestata e aver fatto sesso col suo ex marito.
Nymphomaniac è una storia di violenza che ha inizio freudianamente dalla libido, ma è molto più “morale” di quello che vuole mostrare. Una storia di ricerca dell’armonia che sfocia nell’autodistruzione di sé. L’autoliberazione sessuale è solo un pretesto per mettere in scena tutto ciò che c’è di doloroso nell’esistenza di chi non si accontenta dei limiti della società. Una società in cui chi chiede di più viene schiacciato dal peso di se stesso, che non può avere un lieto fine perché la felicità raggiunta è illusoria, una beffa del destino per sferrarti un colpo basso. Non esiste redenzione, come non esiste giusto e sbagliato: la scena finale ribalta entrambi i personaggi, e probabilmente è in quel punto che l’intera narrazione si riavvolge su se stessa, che parla di sé in quel fotogramma nero come la pece fatto di calpestii sinistri e uno sparo di pistola. Una visione nichilista della società che solo Lars Von Trier poteva tirar fuori come summa del suo percorso filmico, e -perché no- anche della sua stessa vita.
Non è un film facile, Nymphomaniac. Non è un film per la folla impermeabile. Perché ad ogni sguardo svela qualcosa di nuovo e di diverso, da ogni angolazione può piacere o disgustare. Scrive The Guardian:
Com’è stato per te? Com’è stato per me? A Nymphomaniac non importa. Va per la sua strada, al servizio del proprio piacere, bistrattando il pubblico da una scena di sesso all’altra. (…) Mi infastidisce, mi disgusta, e penso che potrei amarlo. È come una relazione violenta. Ho bisogno di vederlo di nuovo.
Camilla Ruffo