Io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai. Amore che vieni, amore che vai. Le parole di De André sembrano cucite su misura per i due leader de facto del governo Conte: Matteo Salvini e Luigi di Maio. I capi politici della Lega ex Nord per la fu indipendenza della Padania e del Movimento Cinque Stelle sono ai ferri corti ormai da qualche mese, e come ogni relazione nata sotto i peggiori auspici che si rispetti tutto è iniziato con un bacio noto a tutti ma frettolosamente nascosto per timidezza dai diretti interessati. E ora si sta chiudendo in una lenta agonia estiva, con Matteo che scappa al Papeete Beach per distrarsi e Luigi che tenta di attirare la sua attenzione provocandolo come nei più classici teen movie di John Hughes.
Va be’, se proprio te lo devo dire, non è che tu mi faccia poi impazzire. Dio, ci resisto. Se non ci sei, non muoio. A pochi giorni fa risalgono le parole di Di Maio a LaCnews24, emittente locale. Come ogni amante che sa che sta per essere lasciato, ha preferito anticipare i tempi e sparare già a zero sul suo futuro ex partner (di governo). Prima ha chiamato Salvini «quell’altro là», definendo «insopportabile» l’atteggiamento della Lega, poi ha ridimensionato le sue scelte di un anno fa: «non avevamo alternative», dice. Sai, se mi avessero detto di sì dall’altra parte…
E passerà così un altro inverno freddo, poi magari con l’estate mi riscaldo. Tanto già lo so che non cambierà un cazzo. Io per te non esisto. La tecnica johnhughesiana di cui sopra, però, potrebbe aver sortito effetti insperati. «Quell’altro? Mah… Posso non stare simpatico ma ho un nome, mi chiamo Matteo». Colpito e affondato (nell’orgoglio). Nell’afa romagnola Salvini si è sentito chiamare in causa e ha lasciato libero sfogo alla sua vena passivo-aggressiva per difendere il suo onore.
Ormai è tardi. Guarda il tempo, vola via… Ma forse i tempi delle frecciatine tra leader sono destinati a finire, perché sotto l’apparenza delle reciproche stoccate non arde più la passione populista che aveva infiammato l’Italia il 4 marzo 2018, ma solo una costante tensione ideologica. Non c’è più un tema su cui non ci sia uno scontro aperto al tavolo del governo. Ultima in ordine di apparizione la complessa riforma della giustizia con l’abolizione della prescrizione voluta dal Movimento e osteggiata dalla Lega, ma la lista dei punti di contrasto è potenzialmente infinita.
Ma amici mai. Per chi si cerca come noi non è possibile. Mandare avanti il governo a piccoli passi, navigando a vista e trovando accordi volta per volta in un clima ostile da campagna elettorale permanente? Fuori questione, apparentemente. Il governo Conte è nato sulla base di un programma comune condiviso formalizzato da un contratto di governo tra Salvini e Di Maio di cui si fece garante proprio l’autoproclamato avvocato degli italiani. Sembra impossibile che al momento della firma di quel contratto nessuno abbia pensato ai possibili scontri su tutti i temi rimasti fuori dallo stesso oppure definiti in modo vago. Dal TAV alla giustizia, per l’appunto, passando per diritti civili, liberalizzazione delle droghe leggere, rapporti stato-Chiesa e autonomie.
Finora abbiamo scherzato – più o meno – ma è sorprendente quanto il gergo che si può usare per descrivere un amore sia adattabile e adatto alla politica. Linkiesta parla di «crisi permanente», e d’altronde questa forse è una possibile risposta al nostro gioco di metafore: la crisi tra Salvini e Di Maio, tra Lega e Movimento Cinque Stelle, non è ancora scoppiata perché c’è sempre stata.
Dopo un anno (abbondante) di insulti, provocazioni e bordate tra una sponda e l’altra del governo, abbiamo imparato che al momento delle decisioni ciò che conta non è mai il contratto, che come i sette comandamenti di Animal Farm è ormai perso nell’ombra, ma la capacità di accordarsi su una scelta condivisa che puntualmente, in qualche modo, arriva. Perché sedersi su una poltrona che si regge su un equilibrio fragilissimo è sempre meglio che rischiare di perderla.
Davide Saracino