Il perdurare della crisi economica, i suoi effetti sull’inflazione e sulla crescita economica vengono accompagnati da effetti reali di facile comprensione pure per l’uomo medio, ma che agli occhi della politica e dei politici possono sembrare scandalose ingiustizie perpetrate ai danni dei cittadini; la negatività, per la prima volta dalla sua istituzione nel 1995, del tasso di rivalutazione nozionale del montante contributivo individuale parrebbe essere uno di quelli.
Per spiegare la questione c’è bisogno di fare un paio di precisazioni, innanzitutto c’è da dire che il sistema previdenziale italiano è di tipo unfunded, questo vuol dire che le pensioni sono pagate con i contributi previdenziali raccolti e possono essere integrate da trasferimenti dalla fiscalità generale, significa che il pagamento delle pensioni future è solo nominalmente legato ai contributi versati oggi, ma praticamente avviene con la distribuzione ai pensionati di parte delle entrate tributarie dei periodi futuri.
Insomma le pensioni di chi attualmente non è più in età lavorativa sono pagate con i contributi e con le tasse della generazione ancora in grado di lavorare, questo meccanismo è di difficile inversione e si basa in sostanza su di un trasferimento di risorse tra generazioni diverse. Dunque non sorprende la necessità, emersa alla riforma del sistema pensionistico del 1995, di dover ancorare le pensioni alle dinamiche macroeconomiche del sistema il cui funzionamento deve garantirne il pagamento e non deve sorprendere che nel 1995 si decise di non scaricare l’andamento dell’economia sulle tasche di una categoria debole come quella dei pensionati e che per questo si ritenne giusto far potenzialmente quadrare i conti dell’INPS a scapito della generazione ancora attiva attraverso l’applicazione di un coefficiente, legato alla media degli ultimi cinque anni del PIL nominale, all’ammontare di contributi versati dal lavoratore.
Avevamo detto che per la prima volta da quando è in vigore l’attuale sistema previdenziale questo coefficiente assume valori inferiori all’unità (0,998), rendendo il tasso di rivalutazione negativo (-0,2%), generando le vive proteste da parte della troika composta da CGIL, CISL e UIL che, spinte da un nuovo spirito di unità aumentano i loro sforzi a difesa dei diritti dei lavoratori, chiedono la modifica di questo meccanismo e l’introduzione di una resistenza al ribasso per il coefficiente in questione, imponendo il valore massimo tra lo zero e quello risultante dalla media aritmetica dell’andamento nominale del PIL che renda nulla questa rivalutazione piuttosto che negativa. Non si conoscono a riguardo le opinioni della maggioranza, tantomeno pervengono risposte a questa richiesta da parte del governo anche se piuttosto che pensare ad arginare gli effetti della crisi, sarebbe forse il caso che pure i sindacati si impegnino in proposte per il rilancio dell’economia.
Marco Scaglione