Mentre nel Vecchio Continente profughi, populisti e crisi monetarie chiudono le frontiere e insidiano la missione storica della (dis)Unione Europea, ovvero l’integrazione economica, dall’altra parte del mondo il neoliberismo ancora riesce a trovare isole felici in mezzo al tumultuoso oceano del capitalismo mondiale; in realtà, sarebbe meglio dire che dal 4 febbraio di un Oceano vero, il Pacifico, il libero mercato se n’è proprio impadronito, grazie alla firma di un nuovo accordo transnazionale monstre a carattere commerciale, il Trattato TransPacifico (TTP).

Che ci si trovi davanti a qualcosa di grosso, lo si capisce scorrendo la lista dei 12 Paesi che, negli ultimi 5 anni, hanno negoziato l’accordo: USA, Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam. In aggiunta, Corea del Sud, Filippine, Indonesia, Thailandia, Colombia e Uruguay già stanno sgomitando per entrare alla festa, che promette di muovere un volume di capitali senza precedenti, in un’area di libero commercio che include circa il 40% del PIL mondiale. Il trattato comincerà a funzionare non appena almeno sei Paesi firmatari, rappresentanti di almeno l’85% del PIL complessivo coinvolto, l’avranno ratificato secondo le proprie procedure legislative. In pole position per ora ci sono i parlamenti di Nuova Zelanda (che ha ospitato la cerimonia della firma ad Auckland) e Australia; il Canada deve indire persino un referendum, mentre il piccolo Brunei, produttore di petrolio, non avrà di questi problemi, trattandosi di una monarchia assoluta islamica (a ratificare ci pensa il sultano, che piaccia o no).

Dell’accordo gli Stati Uniti sono stati i principali promotori e sono quelli che più si aspettano i risultati positivi: si stimano oltre 130 miliardi di dollari di crescita complessiva dei PIL, valori inauditi per i precedenti trattati di libero scambio, finora con dimensioni perlopiù regionali e con modesti profitti.

Milioni di dollari in gioco, quindi, ma anche parecchi punti oscuri: non si è mai saputo molto dei processi di discussione e deliberazione dei capitoli del Trattato TransPacifico, cosa che inevitabilmente ha dato luogo a voci di corridoio e timori “complottisti”. Stavolta, per la verità, quasi del tutto confermati, una volta diffuso il testo integrale dell’accordo.

Autorevoli osservatori segnalano che, tra le altre cose, il TPP prevede una corposa disciplina sui brevetti, la protezione della proprietà intellettuale, la rimozione di alcuni dazi doganali, la promozione di attività agroalimentari e industriali e regolamentazioni in materia farmaceutica: a quest’ultimo riguardo, è un’ipotesi concreta quella per cui, venendo estesa nell’area del Trattato TransPacifico la durata dei brevetti industriali sui farmaci a 15 anni, si colpirà inesorabilmente la produzione dei cosiddetti farmaci generici, quelli cioè, che, usando la stessa composizione dei prodotti di “Big Pharma”, ne procurano identici risultati terapeutici, pur non sfoggiando alcun marchio prestigioso.

Dalla fisionomia complessiva dell’accordo, sembra che si sia forzata la mano ai Governi per creare nuovi spazi di mercato, anziché di sviluppo: la tendenza sarebbe quella di aumentare le esportazioni (cosa che possono fare solo le economie più forti, non certo le più fragili che al massimo esportano manodopera low cost).

Il Trattato TransPacifico pare più un inno al neomercantilismo, che impone e incoraggia a guadagnare sulla pelle dell’altro. Ad affermarlo è Forbes nell’edizione messicana, e non si tratta esattamente di una testata antiliberista.

L’impressione di mettere in un angolo i singoli Stati perché adesso devono giocare i grandi, cioè le imprese e le lobby transnazionali, viene testimoniata da altri capitoli del TPP. Innanzitutto, è significativa la possibilità per i privati di adire tribunali speciali con sedi nei Paesi firmatari, allo scopo di chiedere agevolazioni fiscali per compensare eventuali mancati guadagni; inoltre, si tenta di mettere fuori gioco le economie in cui è ancora forte la mano dello Stato, attraverso la disciplina (anticipata da Wikileaks nei mesi scorsi, quando le negoziazioni segrete sul punto andavano avanti) di azioni giudiziarie che consentono ai privati di limitare, se non estromettere dal mercato le imprese statali, appunto. Una simile previsione svantaggia quelle economie firmatarie del Trattato TransPacifico, come il Vietnam, in cui il “capitalismo di Stato” sul modello cinese è stata la molla del recente sviluppo, forzandole ad abbandonare qualsiasi partecipazione pubblica in aziende ed imprese, favorendo così gli investimenti stranieri vista l’assenza di privati abbastanza forti economicamente da sostituirsi alla mano statale. Si tratta di una disciplina, ha svelato Wikileaks, quasi del tutto orientata dagli USA.

Mettere in discussione il ruolo politico ed economico della Cina nel Pacifico è stata una delle ragioni determinanti della concezione del Trattato TransPacifico da parte degli Stati Uniti: già ad ottobre Obama, in un discorso ufficiale, ammetteva che un obiettivo primario degli USA è non consentire che la Cina detti le regole dell’economia mondiale, riferendosi alla necessità di reprimere l’influenza di Pechino prima di tutto nel Pacifico come ad una questione di sicurezza nazionale (sulla scorta di pareri simili pervenuti in precedenza da alti papaveri come l’ex generale ed ex capo della CIA Petraeus). Peraltro, la Cina ha riservato un’accoglienza più o meno positiva al TPP, riservandosi di valutare ulteriormente l’accordo e persino una futura ipotesi di adesione. In un momento difficile per la loro economia, i cinesi hanno fiutato il pericolo di essere isolati dall’area del Pacifico, dimora delle “tigri asiatiche”, il che rischia di far rimanere Pechino col cerino geopolitico della sola Corea del Nord in mano (visto che pure il comunista Vietnam ha salutato, direzione TPP).

Al di là dei probabili effetti positivi per l’economia americana (tra le altre misure, risalta quella di rimuovere scientificamente i dazi doganali sui prodotti agroalimentari e industriali di Washington, insieme ad altre 18.000 tariffe), sembra che i competitors nella corsa alla Casa Bianca siano scontenti dell’accordo, anche se per motivi diversi: se Trump paventa il pericolo che la Cina si lasci ingolosire dal Trattato TransPacifico e vi aderisca inondando ancor di più l’America di prodotti cinesi, il “rosso” Sanders denuncia l’assoluto disastro per i lavoratori, i consumatori, l’ambiente e le fondamenta stesse della democrazia americana; tutto ciò non depone bene a favore del Trattato TransPacifico, dato che la maggior parte dei suoi firmatari guarda proprio alla ratifica da parte del Congresso come al segnale di via libera per l’approvazione del documento. Se gli USA dovessero tirarsi indietro, l’intero castello di carte crollerebbe.

Importanti proteste hanno salutato la firma del Trattato ad Auckland, ma manifestazioni in tutti i Paesi coinvolti (anche negli USA) hanno accompagnato gli ultimi mesi di trattative: una protesta che, sebbene spesso disinformata e disordinata, ha messo in evidenza soprattutto l’ambiguità di un accordo firmato quasi in segreto e svantaggioso per i firmatari più deboli.

Si prenda ad esempio il Messico, che già vive uno stato di drammatica prostrazione: nonostante il fallimento di altri sistemi di libero commercio, sottoscritti dal Paese negli ultimi anni con gli Stati Uniti, che ogni volta gli avevano promesso l’America, il Governo si è buttato con entusiasmo in questa nuova avventura, sperando in vantaggi per le esportazioni e per alcuni strategici comparti produttivi messicani, tra cui il settore automobilistico. In realtà, non sembra che il Trattato TransPacifico sarà decisivo per l’export, perché già erano stati sottoscritti accordi di libero scambio di tenore simile con la maggior parte dei Paesi firmatari in passato, mentre gli altri (si pensi al Vietnam e alla Malesia) ora rischiano di scatenare una competizione spietata tra poveri, su prezzo della manodopera e delle merci; la questione dei brevetti farmaceutici, inoltre, sembrerebbe paralizzare il mercato farmaceutico generico e, se così fosse, danneggerebbe proprio il Messico, che ne è uno dei primi fruitori grazie ai bassi costi delle medicine. A chi interessa, però, se le stime di crescita del PIL messicano, per i primi dieci anni di vigenza del TPP, pronosticano addirittura un “faraonico” +0,98%, al modico costo della perdita di 78.000 posti di lavoro, causa l’assestamento del nuovo mercato libero più grande del mondo?

Ludovico Maremonti

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