“Ha fatto il ministro del Lavoro senza avere mai lavorato e ora farà il ministro degli Esteri senza conoscere nemmeno l’italiano“: questa era la media dei commenti sul web alla notizia che, nel governo Conte bis, a Luigi Di Maio sarebbe stato assegnato un dicastero importante come quello che ha sede alla Farnesina. Ma internet a volte sa essere un posto fin troppo cattivo: e allora vogliamo provare a fare, senza alcun pregiudizio, alcune valutazioni e pronostici sull’esperienza di Di Maio come ministro degli Esteri.
I problemi del ministro Luigi Di Maio con la diplomazia
La nomina di Luigi Di Maio come ministro degli Esteri non ha suscitato perplessità solo riguardo alla sua presunta “incompetenza”. I dubbi derivano anche da un atteggiamento quanto meno allegro nella gestione della diplomazia, anche da semplice capo politico del Movimento 5 Stelle. Tralasciando le semplici gaffes, basta ricordare l’incontro con una delegazione del movimento dei gilet gialli capitanata da Christophe Chalençon, tutt’altro che ben visto dal governo francese. O la posizione ambigua sul caso Venezuela, quando l’Italia a trazione gialloverde è stata l’unico paese dell’UE a bloccare il riconoscimento di Juan Guaidò in quanto “il cambiamento deve essere deciso dai cittadini con elezioni democratiche“.
Eppure, l’incarico di ministro, e in particolare alla Farnesina, va forse letto in un’ottica di generale responsabilizzazione di Di Maio e del Movimento 5 Stelle tutto: non si tratterebbe più di parlare da leader di partito (sia pur del primo partito per seggi in Parlamento), ma da capo della diplomazia italiana. E in quanto tale, tenuto a rispettare quelli che sono da sempre i due cardini della politica estera italiana, a prescindere dalle forze che negli anni si sono avvicendate al potere: europeismo e atlantismo. In altre parole: come annullare i populisti risucchiandoli all’interno dei meccanismi istituzionali più classici.
Le future sfide del ministro degli Esteri nel Conte bis
La nomina a ministro degli Esteri di Luigi Di Maio ha ovviamente attirato l’attenzione e la curiosità anche degli esperti di geopolitica. L’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) ha dedicato al leader del M5S un memo per “fornire qualche garbato consiglio al nuovo Ministro degli Esteri“, in cui vengono delineati i principali dossier che il governo Conte bis si troverà a dover affrontare in politica estera. E fornendo anche alcune chiavi di interpretazione su cui si baserà un giudizio finale dell’operato di Di Maio: offrire una voce univoca, chiara e forte da parte di tutto il governo sui pochi temi fondamentali; una maggiore frequenza dei viaggi diplomatici; e la capacità di parlare non come capo politico del M5S, ma come portavoce degli interessi nazionali di lungo periodo.
Per quanto riguarda invece i temi, l’ISPI articola la propria proposta in cinque punti: l’Europa, dove quello che si preannuncia un ampio confronto sui temi economici e della crescita necessiterà di una voce forte anche da parte del ministro degli Esteri; le relazioni USA-Cina, in cui l’Italia vive una situazione di mezzo tra la fedeltà atlantica (l’ormai famoso endorsement di Trump a “Giuseppi” Conte) e l’allargamento ad est verso il mercato cinese (Nuova Via della Seta); la Libia e il conflitto Haftar-Serraj, in cui interlocutore fondamentale sarà la Francia di Macron; le migrazioni, in cui si intrecciano la questione libica (limitare le partenze, monitorare il rispetto dei diritti umani nel paese) con quella europea (redistribuzione dei migranti e revisione del Trattato di Dublino); e infine la Russia, con il ministro Di Maio che sarà chiamato a far uscire l’Italia dalle ambiguità salviniane nei rapporti con Putin.
La diplomazia italiana come fattore di stabilità
Nella lettera dell’ISPI, però, emerge un altro passaggio da sottolineare: “(…) alle competenze dei nostri diplomatici, una delle poche eccellenze della nostra amministrazione pubblica“. Ecco, probabilmente un’altra delle logiche che sottostanno alla nomina di Di Maio a ministro degli Esteri è quella di lasciare al capo politico del M5S uno dei ministeri più “teleguidati”, o meglio ancora, condotti dal pilota automatico. Proprio verso questa direzione sembra andare la precoce nomina a capo di gabinetto del ministro degli Esteri di Ettore Francesco Sequi: precedentemente ambasciatore italiano a Pechino, e diplomatico di comprovata esperienza. Il profilo ideale per accompagnare Di Maio nelle stanze del potere.
Tanti commentatori hanno obiettato che la diplomazia italiana è una garanzia di equilibrio e stabilità, in grado di placare anche gli spiriti più bollenti e rivoluzionari. E di rimediare anche a quelli che saranno possibili (anzi, probabili) scivoloni diplomatici. Del resto, i profili dei predecessori di Di Maio non depongono a favore dell’ipotesi di un “uomo forte” o divisivo alla Farnesina: per trovare un profilo di questo tipo bisogna risalire a D’Alema, ministro del governo Prodi II. Dopo di lui, due indipendenti (tra cui il ministro del Conte I, Moavero Milanesi, un diplomatico di professione) e tante figure distensive, quasi da funzionari: Bonino, Mogherini (poi sostituita da Gentiloni dopo la nomina a Commissario europeo), Alfano.
Di Maio rischia di essere un’ingombrante eccezione a questa regola non scritta: e lo dimostra l’irritazione con la quale avrebbe reagito il premier Conte ad uno dei primi atti del nuovo ministro degli Esteri, ovvero una riunione con la delegazione dei ministri M5S del Conte bis alla Farnesina. Un gesto da molti definito una sgrammaticatura istituzionale, oltre che una riproposizione del modello fallimentare che stava alla base del primo governo Conte, quello dei due partiti che lavorano in maniera separata tra di loro.
Ma basterà il nuovo ruolo rivendicato dal premier, non più di semplice espressione della volontà dei partiti ma investito di una propria autonomia, a far sì che Di Maio sia più ministro degli Esteri e meno capo politico del Movimento 5 Stelle? Per il bene dell’Italia, sarà meglio di sì.
Simone Martuscelli