Studiare le gelate distese dell’Artico per capire i cambiamenti climatici. La rompighiaccio tedesca RV Polarstern, seicento persone che vi si alterneranno a bordo – per lo più glaciologi, climatologi, biologi, meteorologi, fisici dell’atmosfera – tutti provenienti da 19 paesi diversi. Almeno altre 4 navi rompighiaccio ed elicotteri di supporto, un’imponente logistica a terra per un progetto che durerà più di un anno. Questi solo alcuni degli impressionanti numeri della missione scientifica MOSAiC (Multidisciplinary drifting Observatory for the Study of Arctic Climate), elaborata da un consorzio internazionale di oltre 70 istituti di ricerca, guidato dall’Alfred Wegener Institut di Bremerhaven (Germania), ma che vede tra gli altri anche NASA, University College London, University of Washington, Beijing Normal University e una miriade di altre prestigiose istituzioni scientifiche e università.
La missione, iniziata con la partenza della Polarstern dal porto norvegese di Tromsø lo scorso 20 settembre e con il ghiaccio al minimo, è proseguita navigando verso nord-est fino ad approdare nel pack della Siberia centrale: lì prevede di attendere l’inverno per far intrappolare la nave nella banchisa artica e da lì lasciarsi andare con essa alla deriva fino alla successiva stagione estiva, per circa un anno. Se, come si spera, tutto andrà per il verso giusto, ciò permetterà alle decine di scienziati che a turno alloggeranno sulla nave di studiare da vicino l’area più remota dell’Artico – di norma in inverno inaccessibile – e di approfondire la nostra conoscenza sui cambiamenti climatici nella zona del mondo che si sta riscaldando più velocemente per effetto del global warming.
«L’Artico si trova nell’epicentro del riscaldamento globale. Eppure quello che accade a quelle latitudini estreme, soprattutto in inverno, ci è ancora del tutto ignoto» ha spiegato la biologa marina Antje Boetius, che dirige l’istituto Alfred Wegener. Come stanno influendo questi fenomeni sulle correnti? Quale sarà l’impatto sugli ecosistemi e sul clima di uno scioglimento sempre più repentino del pack artico?
Come Fridtjof Nansen: la Polarsten del XIX secolo.
Per tentare di rispondere a queste ed altre domande i ricercatori di MOSAiC, che già di per sé si configura come la più grande missione scientifica nell’Artico, hanno rispolverato una tecnica mai sperimentata con questi numeri e che ci rimanda alle leggendarie e avventurose esplorazioni di oltre un secolo fa: era il 1893, infatti, quando l’esploratore norvegese Fridtjof Nansen studiando le correnti nel Mar Glaciale si convinse di poter raggiungere il Polo Nord dalla Siberia centrale, semplicemente lasciandosi trasportare alla deriva, muovendosi con il pack, e per far ciò fece volutamente intrappolare la sua nave, la Fram, tra i ghiacci. Si accorse, in seguito, che il movimento era troppo lento e tentò poi invano di raggiungere il Polo proseguendo a piedi. L’intuizione però fu geniale.
La tecnica della Polarsten sarà la medesima: intrappolata tra i ghiacci, le correnti la porteranno alla deriva e per ottobre 2020 nello stretto tra la Groenlandia e le Svalbard e via via verso mari più caldi. Nei mesi in cui la nave sarà bloccata, ciò darà la possibilità di allestire un vero e proprio grande centro di ricerca sul pack, che sarà di straordinario interesse scientifico grazie alla strumentazione a bordo, trasportata in decine di container.
Certo non mancheranno i rischi e le condizioni proibitive per l’equipaggio, con temperature fino a -45° C, la notte polare e gli orsi da tenere sotto controllo per garantire la sicurezza degli esperti: «resteremo tutto il tempo sopra l’80° parallelo, spingendoci fino a 200 chilometri dal Polo magnetico – spiega il capo missione Markus Rex -. Nessuno si è mai spinto d’inverno così a Nord». E’ per questo che la principale preoccupazione della Polarsten, negli ultimi giorni, appena successivi all’incontro con il pack più duro, è stata quella di trovare un buon punto per ancorarsi alla banchisa e da scegliere come campo base per le attività della missione MOSAiC. Fortunatamente da qualche giorno tale punto è stato individuato.
Una missione da seguire, territori da presidiare.
Nel 1893 l’Artico rappresentava un punto irraggiungibile tanto quanto la Luna: era questa la percezione delle persone comuni, forse un po’ meno degli esploratori come Nansen, che quasi arrivò a toccarne il Polo pur senza i moderni mezzi tecnologici. 126 anni dopo, il parallelo 66°33’39” di latitudine nord è lo specchio delle più cupe contraddizioni della nostra modernità. La porzione del mondo che maggiormente paga il global warming è anche quella dove, proprio in virtù dello scioglimento del pack, si aprono immense possibilità di guadagno per i diversi portatori d’interesse. Dagli interessi del “dragone di neve” cinese ai tentativi di Trump di comprare la Groenlandia, le mani delle potenze mondiali si stanno già espandendo verso l’estremo nord.
In ciò la missione MOSAiC merita di essere seguita – è possibile consultare il sito su cui l’equipaggio comunica giornalmente le attività in corso – non solo per i risultati scientifici importanti che potranno essere raggiunti, quanto sopratutto per lo straordinario valore simbolico che i progetti di ricerca internazionali hanno in un’area tanto importante quanto fragile e assediata: ciò che succede nell’Artico, come sempre, non rimane nell’Artico.
Antonio Acernese