In questi giorni ai telegiornali abbiamo colto di sfuggita i nuovi volti dell’Italia inferocita: un inverno inaugurato dalle piazze e non dai meteorologi. Studenti accompagnati per mano dai docenti precari che rincorrono a fatica l’insegnamento alla cittadinanza; e operai che, iscritti o meno ai sindacati, sventolano insieme la bandiera della disoccupazione. Decisi quasi a cambiare il volto del bel paese, se ripensiamo all’Italia verso lo sbaraglio elettorale delle europee; a trasformare quella solita Italia priva di coscienza collettiva perché affogata tra un reality show e l’aperitivo.
Non è comunque questa, la rubrica adatta per contestare o innalzare le rivolte che si susseguono includendo sempre più persone; ma c’è da rastrellare un pensierino verso questa fase di proteste urbane che, ultimamente, non sempre sfociano nell’atto di giustizia sociale conquistata attraverso le famose lotte per i diritti.
Ebbene, forse qualche fanatico marxista potrebbe odiare i toni di superbia verso la moderazione, ma d’altronde ogni rivoluzione sfocia sempre in estremismo. E nel periodo storico in cui la verità ci viene spifferata presumibilmente, le terminologie sfruttate all’impazzata per parlare delle manifestazioni sono sempre e solo “scontri”, “cariche” e “guerriglie”.
C’è in ballo un vero ed ostico fenomeno mediatico, controllato in parte da un’ignoranza generata da individui inclini alla violenza, in parte innaffiata dai TG superflui, oppure rincarata dai governi che vorrebbero smorzare la frequenza di proteste sottovalutandone l’ideologia predominante. Tra comitati studenteschi volti e rivolti nella sfida ai cosiddetti servi dello stato, e tra coloro chiamatisi addetti alla sicurezza e all’ordine, si scontra il baratro di inciviltà che l’Italia comincia a bere abitualmente come drink per giustificare un po’ di stress. Mentre la cara legislatura libera di burocratizzare il tutto, fa della situazione una merce su cui contestare il futile evento odierno, minimizzando il fulcro incendiato di ragione, che sarebbe poi l’ideologia.
Ma con questo numero non giudicheremo quale ideologia appoggiare: bensì faremo da moderatori verso la proficua spartizione delle colpe, e cercheremo di ricordare, seppur nella banalità linguistica, che la violenza non porta a niente di buono.
“Sono convinto che la non violenza sia infinitamente superiore alla violenza, e la clemenza nobilita il soldato [..] La religione della non violenza è concepita per la gente comune. La dignità dell’uomo richiede l’obbedienza ad una legge più elevata, alla forza dello spirito.”
È con le parole di Gandhi, che le rivolte di contestazione dovrebbero coesistere; nell’integrità ideologica che fa dell’amore per la comunità una sfida verso l’ingiustizia. Se al contrario, dopo il lungo letargo dell’attivismo politico, la sovversione del governo improprio avviene avviluppando i meccanismi di rappresaglia che potrebbero frantumarsi dall’interno, cascando nel fatiscente e scontato sistema che imprigiona la nostra stessa politica; la stessa politica che, attenta agli strumenti in possesso per difendersi dall’ideologia, fa della sicurezza un’arma, scatenando le cosiddette tremende guerre fra i poveri.
Mentre “la non-violenza nella sua dimensione dinamica significa sofferenza cosciente. Essa non significa docile sottomissione alla volontà del malvagio, ma l’impiego di tutte le forze dell’anima contro la volontà del tiranno. Agendo guidati da questa legge, è possibile sfidare anche da soli l’intera potenza di uno stato ingiusto per salvare il proprio onore e la propria anima, ponendo basi per il crollo e la rigenerazione di un nuovo impero.”
Non possiamo permetterci di permeare lo sdegno delle scene di violenza durante una manifestazione o verso un attentato alla sicurezza pubblica, giustificandone le fondamenta d’ipocrisia con l’accusa di vendetta per la libertà e per la salvezza di una comunità. La coerenza si fonda col presupposto di ampliare la ragione verso ciò che ci sembra ingiusto, considerando la strada adatta alla redenzione in nome di un atto che mai verrà rinnegato dalla storia col sangue e le lacrime. E utilizzando un detto efficace, neanche far di tutta l’erba un fascio: scaraventarci contro la divisa che dovrebbe collocarsi in nome della nostra patriottica provenienza; denigrando il rispetto verso quella categoria di persone come carabinieri e poliziotti che ogni giorno ammettono la lontananza ai cari per un bene di ordine superiore e comunitario. Anche Platone affermava che i guardiani della città sono coloro schiavi e sfruttati, ma non dai padroni di servizi monopolizzanti e onirici: bensì sfruttati nell’indole di protezione, e schiavi di una constante infelicità messa a servizio di tutti. “I guardiani nell’anima hanno sempre oro e argento. Ma solo ad essi non è concesso di maneggiarli. Perché così potranno sempre salvarsi, e salvare lo stato.” Quindi, ci si auspica che durante le prossime guerriglie cittadine, vengano sganciate margherite di pace anziché lacrimogeni e manganelli. Dopotutto, la grandezza di un’idea sta nell’esprimersi attraverso la fierezza, senza sfociare nel coinvolgimento violento.
Nota 1-2. Teoria e pratica della non-violenza, Gandhi
Nota 3. La Repubblica (Libro III), Platone
Alessandra Mincone