Donald Trump è il 45° Presidente degli USA, smentendo i sondaggi, molti dei quali assegnavano la vittoria alla candidata democratica Hillary Clinton (che ha perso sul filo di lana).
Il nuovo Presidente, accolto da un’ovazione, ringrazia la propria avversaria, che gli ha telefonato per le congratulazioni di rito (ma non risparmiandole una frecciata, citando pubblicamente nei ringraziamenti i servizi segreti…).
«Adesso è arrivato il momento per l’America di curare le ferite della divisione. Gli indipendenti, i repubblicani e i democratici di questa nazione devono riunirsi in un popolo solo.
Mi impegno di fronte a ogni cittadino di questo paese, di essere il Presidente di tutti gli americani, cosa che è per me estremamente importante.»«Lavorare insieme ci porterà alla ricostruzione della nostra nazione e al rinnovamento del Sogno Americano. Ho passato tutta la mia vita nel mondo del business, e ho visto il potenziale dei progetti e delle persone di tutto il mondo; ed è quello che voglio fare per il nostro paese, ora.
C’è un grandissimo potenziale, e il nostro paese ne ha così tanto, che quello che creeremo sarà fantastico.
Ogni singolo americano avrà la possibilità di veder realizzato il proprio potenziale.
Gli uomini e le donne dimenticati di questo paese non lo saranno più.
Metteremo a posto quelle che sono le città più povere.»
In questa prima parte del suo speech, c’è tutto il Trump che vince contro ogni pronostico, che ha ricevuto l’investitura di un popolo che è passato oltre le sue frasi sessiste, quello stesso popolo che non ha mai perdonato il Sexgate al marito di Hillary.
Il magnate americano vince per la sua capacità di coalizzare tutto l’elettorato, ora diviso tra repubblicani e democratici non su questioni programmatiche, ma di appartenenza all’una o all’altra forza politica, richiamando tutti all’unità in nome del bene supremo della Nazione e del Sogno Americano.
Il discorso della vittoria è indirizzato a un paese che «non conosce sfide troppo grandi» che possano mettere in pericolo il suo futuro, che bisogna riprendere, per «tornare a sognare in grande».
In queste parole vi è un leader politico che tocca le corde di un discorso di un “nuovo” New Deal, tanto caro agli USA; di una nuova politica espansiva, del ricordo di un’America rampante e al centro della scena politica mondiale, dopo gli anni bui della crisi del ’29 (e della Seconda Guerra Mondiale), così simile all’attuale crisi economica e sociale, iniziata nel 2008.
E chi meglio di un imprenditore dell’edilizia può promettere ciò, parlando di «mettere a posto», di «riaggiustare», di «ricostruzione», ora metaforica, della nazione, ora materiale, delle città più povere e delle loro infrastrutture?
Le parole di Trump fanno scattare un processo di immedesimazione, che agisce su più livelli.
Il primo si basa sulla sua immagine di imprenditore di successo, rievocando in un popolo martoriato da una crisi economica, che ha nel dna quelle storie di riscatto sociale, il mito del self made man: l’uomo che si realizza da solo, ribaltando le sorti sfavorevoli, e procurandosi la propria opportunità dal destino.
Il successivo consiste nell’evocazione di un “noi”, in questo movimento di riscatto (che più volte il tycoon ha evocato nelle sue campagne elettorali) contro un “loro”, cioè la “casta” delle lobby finanziarie, delle quali la Clinton era vista come espressione.
È un punto ricorrente nei suoi discorsi, diretto anche ai poveri, ai quali Trump promette di essere protagonisti nella sua nuova America.
È una strategia comunicativa ripresa da un altro suo rivale, quel Bernie Sanders che aveva quasi scalzato Hillary, che contrapponeva alle leggi di Wall Street e alla sua fallimentare ricetta anticrisi il protagonismo delle masse, dei movimenti di Occupy Wall Street e l’espansione dei diritti.
Il magnate esprime quella divisione tra l’establishment e gli outsiders, di cui fa parte, che ha spiazzato la politica americana e che ha reso palese che, tra repubblicani e democratici, sono saltate le differenze, essendosi pressoché assimilati nei programmi di politica economica e di sicurezza nazionale.
Ormai la sua ingombrante figura segna una frattura, forse irreversibile: le élites vedono diminuire il proprio controllo sulle sorti del paese, esercitato con candidati come i Bush, i Clinton, per alcuni aspetti perfino lo stesso Obama.
Ora il divario con le masse, che preferiscono politici di rottura, è avvenuto, e dovranno farne i conti.
Ciò costituisce l’ultimo e più sottovalutato livello del suo discorso, diretto alla classe dirigente del Partito Repubblicano, che lo ha combattuto per lunghi tratti delle primarie e in parte della campagna elettorale, a colpi di slogan come «Never Trump» (Mai Trump).
Il Presidente lancia un messaggio di conciliazione coi Repubblicani, ma allo stesso tempo di ufficializzazione del cambiamento che porta nel partito.
«Costruiremo una rete di rapporti positivi con gli altri paesi. Mi aspetto delle eccellenti relazioni.
E mentre terremo sempre al primo posto gli interessi americani, andremo d’accordo con tutti, su questo posso rassicurare tutti i paesi.
Cercheremo una base comune di dialogo, non ostilità, non lo scontro.»
Il nuovo Presidente conclude il suo discorso rimarcando le sue posizioni in politica estera, paradossalmente “più a sinistra” rispetto a Hillary, che in parte si sono viste con Sanders nelle primarie democratiche.
Eduardo Danzet