Con le narici dilatate e gli occhi socchiusi: è così che molti ricordano Ben Whishaw nel suo primo vero ruolo da protagonista in “Profumo”, diretto da Tom Tykwer e uscito nel 2006.
La storia è quella di Jean-Baptiste Grenouille, un ragazzo nato in un mercato del pesce con un olfatto sovrumano, che gli permette non solo di identificare qualunque odore lo circondi, ma anche di creare profumi dall’armonia perfetta. Lo anima un’ossessione, uno scopo da raggiungere che è anche la sua stessa linfa vitale: distillare il profumo della donna.
E Benjamin John Whishaw, all’epoca ventiseienne, portò in vita un personaggio così convincente da reggere sulle sue sole spalle l’intero peso del film.
Il suo talento gli permise di partecipare fra l’altro al lungometraggio basato sulla vita di Bob Dylan, “Io non sono qui”, e, più tardi, di interpretare il poeta inglese John Keats in “Bright Star”. Il 2012 lo vide poi vestire i panni di Q accanto a Daniel Craig nel ventitreesimo capitolo della saga 007, e recitare nel corposo cast di “Cloud Atlas”, la controversa e affascinante opera dei fratelli Wachowski.
Se però la maggiore popolarità fra il grande pubblico arriva grazie a produzioni di una certa portata, le sue notevoli doti di attore vengono in realtà espresse al meglio in una serie da sei episodi e in una miniserie, due prodotti televisivi inglesi.
La prima delle due è “The Hour”, trasmessa tra il 2011 e il 2012 e cancellata dopo le prime due stagioni (peccato). Ambientata nella sede di un’emittente televisiva degli anni Cinquanta, è incentrata sulla figura di un reporter, Freddie Lyon, il nostro Ben.
Nel suo completo di tweed, Whishaw sembra appartenere in tutto e per tutto a quegli anni: evidentemente a suo agio, disinvolto, con una capacità espressiva sia del viso che del corpo realmente emozionante. Il suo personaggio non è amabile, ma è anzi testardo, ribelle, perfino egoista.
Eppure il risultato è affascinante: le altre figure, seppur importanti ai fini della trama, dipendono da lui come le marionette dai fili. Il sorriso appena abbozzato che parte dagli occhi, la voce dal timbro caratteristico, la strana fluidità del corpo spigoloso e magrissimo: ecco cosa rende quasi assuefacente la serie, già di per sé di altissimo livello.
Infine, la miniserie prima citata è “Hollow Crown”, composta di episodi lunghi poco meno di tre ore, che sono in realtà trasposizioni cinematografiche di quattro dei drammi storici di Shakespeare. Ben Whishaw è il fulcro del primo: Riccardo II.
Nel ruolo di re pallido, vanesio, dagli occhi opachi e lontani, Whishaw supera se stesso. Incorniciato da stoffe bianche e dorate, incarna un personaggio talmente complesso che si fa fatica a credere di poter percepire tali e tante sfumature di pensieri, sentimenti e attitudini su un solo volto. La sua voce lamentosa ritma l’intero episodio, e arriva al culmine nel monologo finale, lento e di una tale potenza che si è obbligati a riascoltarlo una seconda volta, e una terza, per poi sperare che chi l’ha pronunciato ottenga ancora di recitare ruoli di questo calibro.
Chiara Orefice