Tra i vari argomenti affrontati nell’ultima conferenza ONU sul clima la geoingegneria aveva diviso i presenti e fatto discutere, ma su un punto tutti erano d’accordo: è una strada che va esplorata attraverso una cooperazione mondiale regolamentata.

La COP23 dello scorso novembre aveva tracciato una scheda clinica del pianeta niente affatto rassicurante: seppure le nazioni riusciranno a rispettare appieno gli accordi di Parigi del 2015 le temperature saliranno di circa due gradi aumentando il pericolo di danni irreversibili agli ecosistemi ed è in quest’ottica drammatica che la geoingegneria ha fatto il suo  prepotente ingresso in campo come possibile aiuto nella lotta climatica.

La geoingegneria, chiamata anche ingegneria climatica, è un tentativo di intervenire su scala mondiale sul clima: le varie operazioni affrontano i pericoli maggiori per il nostro pianeta quali l’eliminazione dell’anidride carbonica e la gestione dell’irraggiamento solare. Ad oggi tutte le tecniche sperimentali per interferire sul clima dividono gli scienziati climatici e gli ambientalisti: c’è chi la reputa un aiuto e chi un ulteriore pericolo per il pianeta. Quel che è certo, ed è emerso anche durante la COP23, è come questa strada non sia ancora sicura ma allo stesso tempo pressoché inesplorata. Plausibile che, con interventi mirati e controllati, riesca a diventare un’azione complementare nella battaglia al surriscaldamento globale.

La geoingegneria divide su molti fronti: quello scientifico in quanto non sono stati prodotti studi soddisfacenti sulle tecniche da utilizzare, anzi, in alcuni casi i risultati dei test sono stati disastrosi; quello politico sociale perché queste tecniche molto dispendiose creerebbero un ulteriore divario tra gli stati più sviluppati e quelli con difficoltà economiche o tecnologiche; e infine quello legislativo in quanto gli effetti di tali interventi avrebbero un impatto globale non potendo, quindi, prescindere da accordi internazionali e sovranazionali.

Alcuni credo che la geoingegneria  rappresenti una speculazione e un tentativo di grandi potenze economiche incapaci di mettere in atto serie ed efficaci politiche climatiche potrebbero utilizzare anche scopi politici ed economici. Altri, come il ricercatore Matthias Honegger, dell’IASS – Institute for advanced sustainability studies, sostengono che non sarà mai possibile un mondo senza emissioni, che potremmo ridurle al minimo, ma che non scompariranno e che iniziare a discutere sul come disfarsi anche di quelle è una prerogativa inevitabile. Alcune nazioni, come gli USA di Trump, giustificano le preoccupazioni di chi non vede di buon occhio la geoingegneria: aver abbandonato gli accordi di Parigi, ritrattato sull’emissioni e aver finanziato enormemente la ricerca dell’ingegneria climatica lasciano pensare ad una scorciatoia drammatica.

Tra i vari approcci alcuni sono già molto utilizzati, come piantare alberi, altri muovono i primi passi verso una diffusione globale, come la trasformazione di CO2 in roccia, ma molti altri sono in fase sperimentale e danno risultati contraddittori e alle volte disastrosi. Sicuramente siamo di fronte ad una situazione complessa, con un problema, quello del riscaldamento globale, da risolvere e con una possibile soluzione, il raffreddamento geoingegneristico del pianeta, piena di pericoli e tutta da esplorare. Ciò che è emerso durante al COP23 a Bonn è la necessità, di fronte alla grande incertezza sull’efficacia e gli effetti secondari potenzialmente devastanti dell’ingegneria climatica, discutere della legislazione della geoingegneria.

Alcuni tecniche, come il solar radiation management (SRM), tecnica di geoingegneria che  consiste nel rilasciare microparticelle riflettenti nella stratosfera, così da costruire un immenso scudo capace di respingere la luce del sole, provocano degli effetti difficili da prevedere: vi sono proiezioni che indicano un’alta probabilità che la geoingegneria possa causare siccità e carestie in diverse parti del mondo. In uno studio pubblicato sulla rivista Nature da un gruppo di ricercatori inglesi e statunitensi, sono descritti i potenziali effetti catastrofici che le applicazioni delle tecniche di SRM potrebbero causareGli impatti di una simile operazione, secondo gli scienziati potrebbero essere differenti a seconda del punto di iniezione: se iniettato nell’emisfero boreale sembrerebbe possibile un confinamento che migliorerebbe il clima solo in una parte del pianeta esponendo però, zone come l’Africa centro-settentrionale, a lunghi periodi di siccità. Al contrario iniettare gas nell’emisfero meridionale non permetterebbe di confinare la nube e allo stesso tempo aumenterebbe le tempeste nell’emisfero settentrionale.

Le parole di Janos Pasztor, direttore esecutivo della C2G2 ed ex consigliere per il cambiamento climatico all’Onu  espongono un chiaro problema: questa tecnologia esigerebbe un livello di cooperazione internazionale che non abbiamo ancora mai visto. Chi deciderà se dovremo o no utilizzare l’iniezione di aerosol nella stratosfera e quando? Fino a quale temperatura poter giocare con il pianeta? Chi si prenderà la responsabilità di aiutare miliardi di persone a discapito di altrettante? I ricercatori sottolineano come l’ingegneria climatica non sia solo una strategia con implicazioni ambientali, ma anche umanitarie. Non è difficile immaginare un mondo in cui i paesi più ricchi decidono operazioni di ingegneria climatica per il loro tornaconto, gettando in un inferno quelli meno attrezzati.

Servono linee guida internazionali per evitare che vengano approvate tecnologie in grado di nutrire alcune regioni del mondo e devastarne altre. Le singole nazioni non devono poter prendere decisioni unilaterali sul clima che avrebbero ripercussioni globali. L’appuntamento è al prossimo novembre a Katowice, in Polonia, roccaforte del carbone, per la COP24 che si preannuncia controversa e ricca di contenuti.

Francesco Spiedo

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.