I raid aerei della coalizione internazionale, messa in piedi dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, non sono riusciti a fermare l’avanzata dell’esercito del Califfato, ormai vicino alla conquista della città curda di Kobane.
Certo, i bombardamenti mirati hanno ritardo e causato danni ai rifornimenti (soprattutto economici) ai sunniti estremisti, ma, come direbbero i realisti offensivi, non è possibile vincere una guerra senza “una formidabile forza terrestre”.
Infatti, la coalizione anti Isis è stata fortemente criticata dall’opinione pubblica mondiale: secondo le stime delle Nazioni Unite è in atto un nuovo genocidio che la forza area, al momento, non è riuscita a fermare.
Kobane è circondata dal territorio nemico: per quanto le milizie curde resistano, anche con l’appoggio aereo americano, la città sarà presto espugnata perché quasi irraggiungibile via terra, mentre l’Isis può contare su una buona catena di rifornimenti.
Le immagini della devastazione, della fuga di migliaia di profughi verso l’ultimo valico sicuro con la Turchia e le barbarie dei sunniti estremisti hanno riaperto un dibattito, che fino ad una settimana fa sembrava chiuso: per sconfiggere il Califfato, occorre un’operazione di terra?
Obama aveva escluso il ricorso alla fanteria, un po’ per i costi che comporterebbe ma, soprattutto, per il ricordo nitido dell’esperienza vietnamita: nel nord dell’Iraq non si potrebbe contare sull’appoggio del governo di Baghdad, sempre più incapace di compattare il paese, mettendo a rischio così la vita di molti soldati. Ancora, la fanteria potrebbe approdare in Siria solo su consenso del regime di Assad: proposta partita da Russia e Cina, ma nettamente respinta dalla NATO che non vuole riconoscere un nemico come interlocutore politico e strategico. Allora, Washington vaglia due ipotesi, più fantasiose che reali. La prima consiste nell’armare i movimenti islamici si più moderati (come richiesto espressamente dall’ex Segretario di Stato Hillary Clinton). La seconda conterebbe un esercito di esuli e rifugiati, non considerando, però, le difficoltà di reclutamento e i tempi lunghi di addestramento che ciò comporterebbe.
L’Isis è ormai un problema mondiale: anche Russia, Cina ed Iran sostengono che bisogna operare insieme per sconfiggere la minaccia del radicalismo sunnita. I problemi riguardano gli obiettivi politici e le pratiche. Russia e Cina vogliono la riabilitazione di Assad; l’Iran spinge per l’egemonia regionale e chiede una riconsiderazione sul nucleare a scopo militare; Israele si oppone fermamente a questi due progetti, mentre gli stati della penisola arabica cercano di porre rimedio al finanziamento di vari gruppi radicali (che hanno poi appoggiato l’Isis) per far cadere Assad; la Turchia dichiara di voler operare con la coalizione internazionale per sconfiggere gli estremisti, ma non fornisce aiuti ai curdi per ragioni politiche.
Nella confusione generale sul “chi”, “come”, “quando”, “dove” e “perché”, sembra non essere stata presa in considerazione l’idea di demandare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la possibilità di creare una forza internazionale di peacekeeping, nonché di elaborare una exit strategy politica per la crisi siriana ed irachena. Il ricorso all’organizzazione internazionale potrebbe funzionare da un punto di vista militare: gli stati arabi potrebbero sostenere i costi di un’operazione di terra, mentre i paesi europei, Stati Uniti, Canada ed Australia potrebbero formare una “formidabile fanteria”.
Ma, quello che appare semplice non lo è affatto: nessuno ha intenzione di impantanarsi in una guerra terrestre, a prima vista semplice e veloce, che potrebbe logorare i partecipanti. Non tanto perché il territorio coperto dall’Isis è vasto e desertico, ma perché non c’è un piano politico definito: il Kurdistan sta guadagnando prestigio a livello internazionale per l’eroica resistenza contro il Califfato, ma il partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) resta sempre nella black list occidentale. Inoltre, Assad resiste in Siria e gli Stati Uniti si rifiutano di dovergli chiedere il permesso di invadere il territorio siriano.
Infine, quand’anche ci fosse un’efficiente azione terrestre capace di battere l’Isis, si porrebbe un altro problema che angoscia l’amministrazione Obama: chi governerebbe un territorio così vasto?
La soluzione, allora, non può che essere politica.
Marco Di Domenico