La musica è da sempre un elemento costante tra le generazioni di ogni epoca, ma rispetto al passato il modo di fruirne ha subito una svolta radicale. Se fino a qualche tempo fa il vinile era uno dei metodi più utilizzati per ascoltare i propri brani preferiti, al giorno d’oggi è quasi unicamente il fiore all’occhiello degli amanti del vintage.
Dai beneamati 45 e 33 giri, siamo poi passati ai più pratici CD-rom che, a loro volta, hanno lasciato il posto ai file digitali da scaricare o da ascoltare direttamente in piattaforme streaming.
Tra cui, la più celebre è senza dubbio Spotify.
Grazie all’avvento del digitale, quella che un tempo veniva chiamata industria discografica – in quanto basata sul supporto fisico del disco – ha subito un forte sovvertimento: oggi, i metodi di ascolto musicale sopra descritti appaiono arcaici e sono stati soppiantati dalla musica in streaming maggiormente diretta e immediata. In questo nuovo ecosistema sono cambiati totalmente i parametri per decretare il successo di un artista: un tempo si faceva riferimento alla vendita degli album, mentre oggi agli ascolti sulle principali piattaforme digitali e al numero di like sulle pagine social.
In poche parole, piattaforme come Apple Music, Deezer, Amazon, Google Play e soprattutto Spotify hanno cambiato totalmente la concezione di vivere la musica. Quest’ultima in particolare sta facendo tremare la concorrenza registrando numeri da capogiro. Il colosso svedese, fondato a Stoccolma nel 2006, quest’anno ha riportato ricavi pari a 1,51 miliardi di euro e una crescita del 33% rispetto al primo trimestre del 2018. Gli utenti che utilizzano abitualmente Spotify sono 217 milioni, di cui 100 milioni gli abbonati.
Sembrerebbe impensabile che, dopo soli 13 anni dalla sua fondazione, la creatura di Daniel Ek sia riuscita a raggiungere traguardi così ambiziosi, eppure è così. Ma a cosa è dovuto il suo successo? Con molta probabilità alla sua estrema praticità! L’utilizzo di Spotify è facile e immediato: è sufficiente scaricare il programma e creare il proprio account per avere a disposizione milioni di brani di varie case discografiche ed etichette indipendenti. Grazie a questo nuovo strumento è possibile inoltre creare playlist, scoprire nuova musica e condividere i propri gusti musicali con gli amici gratuitamente (o a una modica cifra in caso di sottoscrizione dell’abbonamento).
Come si può evincere, la popolare app che nel giro di poco tempo ha raggiunto un immenso consenso, ha risollevato le sorti e rivoluzionato il mercato musicale. Fino all’incirca cinque anni fa, l’industria musicale era considerata quasi defunta: se nel 1999 il fatturato totale aveva raggiunto il picco con 27,8 miliardi di dollari di ricavo – dovuti soprattutto alle vendite dei CD -, nel 2014 c’è stata una drastica flessione che ha portato i ricavi a 14,3 miliardi.
Il triste fenomeno era dovuto principalmente alla pirateria, ad oggi, in forte calo (-9% nel 2019 rispetto al 2018), debellata principalmente dal servizio gratuito offerto da Spotify ed emuli. Non siamo ai livelli dello scorso millennio, ma sembrerebbe che grazie allo streaming l’industria si stia risollevando. Stando ai dati pubblicati recentemente dall’Ifpi (Federazione Internazionale dei Discografici), le entrate sono arrivate nel 2019 a 19,1 miliardi di dollari.
I numeri sopra riportati fanno sì ben sperare ma c’è un fattore da tenere in conto: con la forte ascesa di Spotify, a pagarne le conseguenze sono state le vendite dei supporti fisici. La FIMI ha recentemente fatto reso noto che, nei primi mesi del 2019, lo streaming musicale ha subito un’ulteriore crescita e che attualmente rappresenta da solo il 63% dei ricavi dell’industria musicale. Nel 2018, negli Stati Uniti, gli introiti dovuti alla vendita dei CD sono addirittura calati del 41,5%, confrontandoli con quelli dell’anno precedente stando a una recente ricerca della RIAA.
Il CEO di Spotify, Daniel Ek, in molte interviste rilasciate, ha dichiarato che parte dei profitti generati dalla sua ditta vengono devoluti alle case discografiche.
Come mai allora la piattaforma svedese ne rappresenterebbe un rischio? 117 milioni di utenti usufruiscono dei servizi utilizzando un account gratuito, generando scarsissimi guadagni per le etichette discografiche nonostante la presenza della pubblicità.
A danneggiare ulteriormente l’industria del disco è il fatto che i produttori di stereo, computer e macbook, adattandosi alle esigenze del mercato musicale in trasformazione, ne stanno producendo sempre meno con lettori CD incorporati.
Il formato fisico sembrerebbe destinato a scomparire: un’ulteriore testimonianza del fenomeno è la chiusura dello storico impianto di Terre Haute, nell’Indiana, primo nella produzione di compact disc del Nuovo Continente, di cui tanto si è parlato la scorsa estate.
Un altro problema dovuto al radicamento della cultura della gratuità, è il cambiamento della concezione della musica stessa da parte dell’ascoltatore: un album frutto del duro e dispendioso lavoro di un musicista, prima supportato con l’acquisto e un attento ascolto dell’opera, ora viene ridotto ad un semplice click. Il prodotto artistico perde di valore riducendosi a merce di consumo: siamo di fronte alla massima espressione del paradigma denominato ‘industria culturale‘, descritto da Adorno e Horkheimer nella loro “Dialettica dell’Illuminismo”.
Anche le nuove leve di musicisti sembrerebbero essersi adagiati nella dimensione attuale del consumo musicale: che senso ha produrre un disco di cui forse uno o, al massimo, due brani raggiungeranno le visualizzazioni su YouTube e gli ascolti sperati su Spotify, quando con un tormentone estivo pubblicato sotto forma di singolo si può arrivare ad una vasta fetta di pubblico?
Sembrerebbe che ormai la musica altro non sia altro che un prodotto di massa e che le parti in causa ne stiano approfittando.
La mercificazione della scena musicale si sta sempre più concretizzando: il principale imputato sarà pure Spotify, ma c’è indubbiamente da dire che senza l’aiuto dei suoi fidati complici tutto questo non sarebbe stato di certo possibile.
Vincenzo Nicoletti