Nel corso della trasmissione televisiva “In ½ Ora” il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha illustrato prospettive e prerogative della sua riforma, il tanto inflazionato Job Acts, dalla quale dovrebbe partire il percorso di rilancio del “Sistema Italia”.
L’idea a monte della riforma, che prevederà l’abbattimento del totem dell’ala maoista-stalinista della sinistra italiana, l’articolo 18, e quindi di fatto la fine di un’altra barbarie vetero comunista, la stabilità del posto di lavoro, è che il padronato ha da tempo accantonato quella innominabile forma contrattuale per approcciare il mercato del lavoro in una maniera più flessibile che più facilmente si adeguasse alle esigenze produttive dell’azienda. Ed esprime lo stato attuale del mercato del lavoro italiano con una battuta che ha rovinato il pranzo della domenica a buona parte degli ascoltatori, peggio della pausa del campionato per gli impegni delle nazionali, e che riportiamo solo parzialmente, nel rispetto dell’equilibrio tra la decenza e il diritto di cronaca: “I contratti a t**** i************ sono il 17%, se andiamo avanti così il problema” della stabilità del posto di lavoro “si risolve da solo”.
Insomma, impossibile controbattere ad un’argomentazione completa ed arguta come la precedente, di fatto l’articolo 18 è stato abolito dal pacchetto Treu nel 1997 e nel corso dei più disparati provvedimenti susseguitisi negli ultimi 18 anni, quando si decise di affiancare ai contratti a tempo indeterminato forme contrattuali a tempo determinato meno onerose dei primi, quindi non diamo a questa amministrazione meriti che non le appartengono.
Dopotutto non è un caso che nel 2013 in Italia i minori poveri in termini assoluti (componenti fragili di famiglie prive dei mezzi per acquistare beni e servizi atti ad una vita dignitosa) siano aumentati di quattrocentomila unità a fronte di ventottomila persone i cui patrimoni hanno superato la soglia del milione di euro, tutto questo nonostante l’articolo 18 a fare da gonfalone dei paladini della giustizia sociale.
Ed il ministro Poletti (dall’alto della sua trentennale carriera politica) deve aver pensato che fosse più semplice lavorare su quel 17% di privilegiati, piuttosto che rimboccarsi le maniche e rendere meno competitivo il rapporto di lavoro a tempo determinato, probabilmente in una sbagliata recezione delle parole del Governatore della Banca d’Italia, il marxista-leninista Ignazio Visco, il quale sempre ieri ha affermato l’effetto distruttivo della disuguaglianza sugli investimenti e sulla crescita economica, sostenendo che “nel breve termine i cambiamenti nel commercio e tecnologici possono aver espulso più lavoratori di quanti il mercato ne abbia saputi assorbire… le politiche del lavoro e le istituzioni devono porsi l’obiettivo di contenere questi costi di aggiustamento e facilitare la riallocazione settoriale e professionale”.
Quindi per il numero uno di Palazzo Koch la soluzione non passa dalla flessibilità del posto di lavoro, quanto dall’aggiustamento dell’offerta di lavoro “investendo in educazione e capacità professionali, non solo per i giovani, ma anche attraverso un processo formativo che duri tutta la vita”. Introducendo in Italia un processo ben radicato nella maggior parte dei paesi europei, il lifetime learning, attraverso il quale i lavoratori, qualunque livello essi appartengano, vengono costantemente formati e diventano parte fondamentale dei processi di investimento e rinnovamento delle realtà aziendali cui appartengono.
Marco Scaglione