Nei vicoli nascosti di Napoli, dove batte il sole ardente, le mura trasudano storia, si ode il rumore fragoroso e sublime di un pittoresco folklore, si respira a pieni polmoni il profumo dell’arte. E proprio tra queste antiche costruzioni, palazzi ottocenteschi che rievocano un passato solcato da memorabili tradizioni, si cela uno spazio in cui splende, incontrastata, la bellezza del teatro, tra oniriche maschere e una superba tradizione teatrale: il Théâtre de Poche. Di seguito riportiamo l’intervista al direttore artistico Peppe Miale.

 

Com’è sorto l’amore per il teatro e come l’hai vissuto?

È stata la conoscenza dei testi classici, studiati al liceo classico, che mi ha incuriosito e un’atavica timidezza che io cercavo di combattere, impegnandomi anche in politica. E, in particolare, con la collaborazione di Massimo De Matteo, con cui ancora oggi dirigo il Théâtre de Poche, mettemmo in scena l’ “Anfitrione” di Plauto, in occasione della festa finale del liceo classico. È nata, poi, una nostra compagnia amatoriale. Tuttavia l’idea di fare l’attore da un punto di vista professionale è nata quando, per caso, all’età di 24 anni, venni a sapere di un provino presso l’Accademia di arte drammatica del teatro Bellini. Per pura sportività partecipai e fui preso. E proprio all’Accademia ho appreso il valore fondamentale dello studio del teatro e cioè, che, se vuoi fare l’attore devi  lavorare dal mattino alla sera in maniera molto dura. Inoltre ero studente di economia e commercio, pensavo di voler diventare commercialista, ma quando iniziai l’Accademia, fu inevitabile seguire le orme della mia passione, anche perché ora come ora non saprei cos’altro fare nella vita, se non facessi l’attore e il regista.

Com’è nato il Théâtre de Poche?

Il progetto del Théâtre de Poche è nato nel 1992 per volontà di Lucio Allocca e Sergio Di Paola, ancora oggi direttore artistico del teatro insieme a me e Massimo De Matteo. L’idea era quella di un teatro che facesse ricerca, che si occupasse di determinati testi piuttosto che di altri (Jonesco, Moliére, e il teatro surreale). Crearono l’associazione culturale “Théâtre de Poche”, perché a Parigi c’è un teatro che ha la stessa dizione. 9 anni dopo, nel 2001, trovarono uno spazio sito in via Salvatore Tommasi e in quell’occasione fui scelto dal mio maestro Lucio Allocca, che mi coinvolse in questa magnifica avventura. Nacque così ufficialmente il Théâtre de Poche.

 

Per quanto riguarda la tournée di quest’anno di che spettacolo si tratta?

Con la compagnia di Carlo Buccirosso quest’anno ritorneremo in tournée con due spettacoli già messi in scena lo scorso anno. “Una famiglia quasi perfetta” racconta la storia di Pinuccio, interpretato da Davide Marotta. Pinuccio è affetto da un handicap fisico che gli ha bloccato la crescita e, all’età di 2 anni, viene adottato da uno psicologo e sua moglie, perché suo padre aveva commesso un delitto, per il quale era andato in galera. Una volta uscito, dopo 25 anni, il padre vuole conoscere suo figlio e si scontra, quindi, con una realtà completamente diversa, con meccanismi riguardanti l’adozione, la condizione particolare del ragazzo e con l’idea tipicamente italiana che un uomo che è stato in galera, anche se ha scontato la sua pena, è sempre identificato come un criminale. Lo spettacolo che si terrà, invece, al teatro San Carluccio si chiama “Corpi scelti”, il cui sottotitolo è “Trittico carnale”. È stato scritto da tre autori (Roberto Russo, Anna Mazza, Angela Matassa) e indaga l’universo femminile attraverso tre monologhi al femminile. L’aggettivo “carnale” del sottotitolo esplicita problemi legati al corpo femminile, oggetto di considerazioni di vario tipo. Siamo in un momento in cui la donna non è esaminata solo in quanto donna, ma in quanto essenza e corpo. E, quindi, per quanto tempo la donna dovrà scontare il peccato della propria bellezza, della propria grazia e cioè della propria essenza? Nei tre monologhi si indaga proprio questa condizione: c’è chi racconta il sacrificio e chi l’improvvisa metamorfosi. È in scena dall’11 novembre.

Un consiglio che daresti a chi vuole intraprendere questa strada.

Quel che mi hanno insegnato è che per diventare attori, per stare davanti ad una telecamera o su un palcoscenico, per avere la capacità di regalare emozioni al pubblico e di raccontare, bisogna essere “bravi”. E per essere “bravi” non basta solo il talento, ma c’è bisogno di tantissima volontà e tantissima dedizione. Infatti, nonostante un grandissimo talento, non si può negare il percorso da fare, lavorando su se stessi, frequentando laboratori di persone che facciano questo mestiere, facendo scuole riconosciute dallo Stato. Queste sono le cose che hanno insegnato a me per diventare bravi, per essere degni di stare su un palco o davanti ad una telecamera. Bisogna studiare, impegnarsi, fare gli incontri giusti. Credo che bisogna stare sul palco per potere poi condividere con qualcun altro qualcosa che attenga al mestiere.

Clara Letizia Riccio

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