Bersani medita, la minoranza freme, la base chiede risposte certe.
Lasciare il PD o non lasciare il PD, questo è il dilemma.
Da un po’ di tempo a questa parte – in particolare, da quando Matteo Renzi occupa contemporaneamente i posti di Presidente del Consiglio e di Segretario del partito, cioè dal febbraio del 2014, ndr  per il Partito Democratico sono tempi quanto mai incerti, lacerato com’è da una lotta intestina che per lunghi tratti rasenta il disturbo bipolare.
Da quando c’è l’ex sindaco fiorentino a Palazzo Chigi, infatti, la sua figura ha egemonizzato il quadro politico, personalizzando il dibattito pubblico (si veda il caso attualissimo del referendum che si terrà a ottobre sulla riforma costituzionale e che si è già da ora trasformato in un plebiscito pro o contro Renzi) e spaccando in due il suo stesso partito.

In primis il cambiamento, a suo modo rivoluzionario, è nel linguaggio: gli avversari politici sono diventati “gufi”, gli esperti che non assecondano la linea di governo vengono etichettati come “professoroni”; anche il modo in cui i media parlano del dibattito interno al Pd è cambiato.

Il vecchio PD la ditta cara a Bersani, a D’Alema e espressione della vecchia classe dirigente dava di sé un’immagine semi-anarchica.

Ognuno era talmente democratico da perdersi in mille discussioni astratte per poi non decidere un bel nulla e in cui le correnti erano decine: articoli di giornale e servizi tristissimi ci presentavano convintissimi i bersaniani, i dalemiani, i civatiani, i veltroniani, i memorabili giovani turchi e per finire  riportati, in passato, più che altro come una corrente per lo più ancora esterna al direttivo nazionale  i renziani.
Al di là del constatare una psyco-personalizzazione del dibattito, si nota immediatamente fino a che punto negli ultimi 3 anni sia cambiata la stessa natura del partito e del centro-sinistra tanto idealizzato da 20 anni a questa parte, con annesse ripercussioni sulla morte definitiva di un bipolarismo che nella politica nostrana non è mai decollato.

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Alcune delle “correnti” interne al Partito Democratico, prima delle tante defezioni e della polarizzazione netta in due schieramenti pro e contro Renzi [Infografica di Repubblica, 21 febbraio 2015]

Sbiancate le correnti, molti hanno mollato (i civatiani, confluiti in Possibile, e vari fuoriusciti oggi in Sinistra Italiana, su tutti Fassina e D’Attorre), troppi sono saliti sul carro del renzismo militante che letteralmente ha divorato gli organi di partito (Serracchiani, Franceschini, Orfini, ma la lista sarebbe lunghissima) e magicamente lo stesso dibattito interno è finito per polarizzarsi: da una parte i fedeli al premier, renziani della prima ora e camaleonti dell’ultimo minuto, dall’altra la minoranza, altro geniale concetto della stampa nostrana, destinato ad assurgere a simbolo di eroismo (con quel tocco di autolesionismo sadico che non guasta). Le mille correnti, più espressione di gruppi di potere legati a interessi locali che basate su reali distinzioni politiche, si sono in breve trasformate in due soli schieramenti pro o contro il Premier.

Il problema è uno, i risvolti politici innumerevoli: Matteo Renzi con la storia politica del Partito Democratico c’entra poco o nulla e ha agito egli stesso come un gigantesco gruppo di potere che ha esautorato chi non ha voluto  per ragioni politiche, per orgoglio, per convenienza  stare dalla sua parte.
Un po’ per incapacità politica, un po’ per aver sottovalutato la furbizia e il fascino di quel giovane sindaco di Firenze, sta di fatto che, senza neanche accorgersene, Bersani&Co. si sono ritrovati la cara vecchia ditta in mano ai “paninari”, ad attuare quegli stessi provvedimenti tanto osteggiati quando venivano sbandierati da Berlusconi e a sopportare la trasformazione della vecchia storia ulivista, che ancora qualche valore politico si compiaceva di averlo, nella più cinica forma di partito pigliatutto.

Bersani stesso è passato dall’essere la voce più autorevole del PD a vecchia gloria di una pretesa minoranza, che pure per tradizione politica pretende di costituire il vero volto dei democratici: è per questo che, mentre i giovani rampolli fuggono e fondano nuovi progetti a sinistra di dubbio valore politico, coreacemente Bersani resiste.
«Questa è casa mia», sono loro che devono andarsene.

I conti con la realtà

Esco. Non esco. Ah no, vabbè, se ci sono le amministrative non esco. Che dici esco? Mi si nota di più se esco e me ne sto in disparte o se non esco e rimango a lamentarmi con tutti?
I termini del dibattito interno alla minoranza ricordano personaggi di Morettiana memoria -parliamo di Nanni, precisiamo-, tragici nella loro difesa di qualcosa che semplicemente non esiste più.

Lunedì 9 maggio si è tenuta, a Roma, la direzione del Partito Democratico: un Matteo Renzi quanto mai diplomatico ha provato a tenere in mano la situazione, cercando di evitare lo scontro aperto e chiamando tutti a 5 mesi di campagna elettorale continua, per stravincere al doppio appuntamento di amministrative + referendum costituzionale di ottobre. Mentre la tregua si infrangeva quasi subito, con Cuperlo che attaccava la Boschi per aver paragonato a Casapound il voto negativo al referendum, contemporaneamente Pierluigi Bersani disertava l’appuntamento e compariva a sorpresa a Bologna, ad un incontro per ricordare Beniamino Andreatta, compianto teorico di quella tradizione ulivista annacquata nel renzismo: c’erano anche altri «reduci» come Enrico Letta e Romano Prodi e, su tutto, tanta tanta disillusione.
Una signora tra il pubblico chiede all’ex-segretario: «Quando mandiamo a casa Renzi?», Bersani mostra l’orologio al polso e scherza: «Aspetta, ora che abbiamo un momentino…».

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Nanni Moretti in Ecce Bombo, 1978.

Su tutti, Bersani dovrebbe fare i conti con la realtà dei fatti, cosa che fino ad oggi ha scelto di rimandare: se da un lato c’è la volontà di difendere la pregressa storia del Partito, compresa di masochismo quotidiano nello scontro con la maggioranza del partito, dall’altro c’è la constatazione che, fuori dal PD, si rischia semplicemente di scomparire alle prossime elezioni  come con tutta probabilità avverrà per Sinistra Italiana e Possibile.
La speranza, parallelamente, è che Matteo Renzi si affondi da solo e che si riesca a portare alla segreteria un personaggio più vicino all’ortodossia di partito  magari proprio col referendum di ottobre e il successivo congresso, annunciato lunedì in direzione.

Bersani lascerà mai il PD? Uscirà a riveder la luce, lui che ogni giorno dà contro il Governo, salvo poi votare quasi tutti i provvedimenti?
La risposta ad oggi non può che essere negativa: dopo anni di opposizione sciatta e sommessa al berlusconismo, contro Renzi la minoranza adotta la strategia del gambero, un passo avanti e tre indietro, lanciando il sasso e ritirando la mano. Ai limiti della sindrome di Stoccolma.

Al contrario, in un futuro prossimo Bersani  e con lui Bindi, D’Alema, Cuperlo e chi più ne ha più ne metta  non potrà fare altro che abbandonare un’esperienza che difficilmente potrà evolversi nel senso voluto dalla minoranza dem, ovvero in un partito stabilmente di centrosinistra, portatore di valori che oggi quello stesso partito sconfessa ogni giorno. Lo strappo è compiuto e prima o poi se ne prenderanno inevitabilmente le conseguenze “antropologiche”. Magari per ricreare una qualche formazione unitaria, sul modello dell’Ulivo, sfruttando l’enorme spazio lasciato a sinistra.
Più Bersani ritarderà di prendere le dovute conclusioni, più il rischio sarà quello di perdere anche il poco consenso che uno strappo immediato avrebbe certamente assicurato presso i molti elettori delusi del PD. La pena sarà la scomparsa politica del centrosinistra, che oggi appare più che mai prossimo all’estinzione. Anche in cattività.

Bersani che aspetta? Il posto come attore in un film di Moretti?

Esco. Esco e mi metto, così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce. Così Fassina e Civati mi fanno «Pierluigi vieni di là con noi, dai». Ed io «andate, andate, vi raggiungo dopo». Allora esco, ci vediamo là.
No, non mi va, non esco.

Antonio Acernese

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