Qual è il prezzo che si è disposti a pagare per ottenere la granitica sicurezza della felicità? A cosa bisogna rinunciare per essere sempre, perpetuamente felici, senza alcun turbamento o noia? Nel lontano 1932 lo scrittore britannico Aldous Huxley rispose a questi interrogativi nell’opera “Il mondo nuovo”.
«Adesso il mondo è stabile. La gente è felice, ottiene ciò che vuole e non vuole, mai ciò che non può ottenere. Sta bene; è al sicuro; non è mai malata; non ha paura della morte; è serenamente ignorante della passione e della vecchiaia; non è ingombrata né da padri né da madri; non ha spose, figli o amanti che procurino loro emozioni violente; è condizionata in tal modo che praticamente non può fare a meno di condursi come si deve. E se per caso c’è qualcosa che non va, c’è il soma… che voi gettate via in nome della libertà, signor Selvaggio. La libertà!»
Ambientato nella Londra dell’anno 2540, il disturbante mondo nuovo riposa sugli allori di una società capillarmente controllata in ogni attività da svolgersi, in ogni pensiero da maturarsi, in ogni movimento da doversi compiere: tutto finalizzato al perseguimento di un imperturbabile e atarassico benessere che obbedisce al motto politico “Comunità, Identità, Stabilità”. La popolazione, gestita da dieci coordinatori, è divisa in tre classi sociali: gli alpha, preposti al governo del mondo, i beta, addetti alla sua amministrazione, e un terzo gruppo comprendente i gamma, i delta e gli epsilon, collocati in ciascuna categoria in base al grado di intelligenza e adepti al lavoro fisico.
L’occhio vigile e insopportabilmente maniacale delle autorità provvede persino alle nascite dei bambini, “prodotti” in via extrauterina, scongiurando, quindi, la straziante sofferenza del parto. E cavalcando l’onda dei “sanissimi” principi eugenetici, lo stesso governo ammaestra i bambini a non pensare, a mimetizzarsi e ad anonimizzarsi nella massa, attraverso un indottrinamento psicologico che si perpetra nel sonno (ipnopedia). Non esiste la famiglia, dal momento che “ognuno appartiene a tutti” e chiunque abbia l’ignobile ardire di amare, viene degradato a nullità; fin da piccoli, gli uomini e le donne sono educati alla promiscuità sessuale, ad un’esorbitante poligamia, senza nessun freno inibitore, eccetto quello (fondamentale) della contraccezione; è incentivato qualsiasi comportamento consumistico che veda tutti sempre impegnati indefessamente; la vita è un pendolo che deve oscillare tra un leggero lavoro e notti cadenzate al ritmo di piaceri sfrenati e dissoluti. Ogni persona è sostituibile, essendo perfettamente uguale alle altre e, proprio per questo, la morte non è connotata da quella lirica sfumatura di dramma, al contrario è una fase necessaria per il benessere dell’uomo e della società.
«Perché un’idea generale dovevano pure averla, per compiere il loro lavoro intelligentemente; e tuttavia era meglio che ne avessero il meno possibile, se dovevano riuscire più tardi buoni e felici membri della società. Perché, come tutti sanno, i particolari portano alla virtù e alla felicità; mentre le generalità sono, dal punto di vista intellettuale, dei mali inevitabili. Non i filosofi, ma i taglialegna e i collezionisti di francobolli compongono l’ossatura della società.»
Eppure in questa dimensione ovattata, in questa confortevole prigione dalle sbarre d’oro, in questa fittizia e rivoltante felicità, tra le Riserve del mondo antico, vive il “selvaggio” John, amante di Shakespeare, selvaticamente innamorato della libertà, incontaminato nel suo essere “umano, troppo umano”. Fortuitamente John entra in contatto con alcuni membri del mondo nuovo: Lenina Crowne, da cui è fatalmente attratto, e Bernardo Marx. Quest’ultimo, “difettato” nella sua identità di alpha, è segretamente sedotto da quella diversità così poliedrica e così autentica, da quella genuinità senza filtri alcuni, da quell’umanità così dannatamente pura.
John non prostituisce le proprie idee in nome di un’artificiosa serenità, non baratta la sua indipendenza con un’adultera prosperità.
Il pensiero sopravvive, splende nella propria incorruttibilità, spudoratamente abbatte gli argini di ogni tirannia, si ribella alla repellente inettitudine della moltitudine. Il pensiero disobbedisce, è impudicamente ammaliato dal demone tentatore dell’eresia, disprezza l’ordinaria ortodossia, abiura la silente negazione della libertà, di cui si nutre e di cui non può fare a meno. Non si può braccare un pensiero, tentare di ingabbiarlo; esso avrà sempre una scappatoia.
E questo ciclopico amore di John per la libertà esplode soprattutto in un dialogo con Mustafà Mond in occasione della morte della madre. Il “controllore” della regione dell’Europa Occidentale afferma che l’unico modo per imporre l’ordine e la stabilità è proprio quello di tarpare le ali alla libera manifestazione del pensiero, di impedire agli esseri umani il lusso di riflettere, di proibire ogni interesse per l’arte, la letteratura, la filosofia.
La scena finale de “Il mondo nuovo” vede ancora una volta John come protagonista, il quale si impicca a seguito di un’orgia a cui tutti gli abitanti dell’altra dimensione hanno partecipato.
«Ma io non ne voglio di comodità. Io voglio Dio, voglio la poesia, voglio il pericolo reale, voglio la libertà, voglio la bontà. Voglio il peccato.»
«Insomma» disse Mustafà Mond «voi reclamate il diritto di essere infelice.»
«Ebbene, sì» disse il Selvaggio in tono di sfida «io reclamo il diritto d’essere infelice.»
Clara Letizia Riccio