Non capita spesso di constatare il disagio sociale in cui ci proliferiamo quali automi costretti alla vita come alla morte. Né capita spesso di vertere sulle parecchie esigenze che dovrebbero fare di noi degli uomini provveduti di uno scopo. Nell’Italia della desertificazione ideologica, ci si rende conto, studiando a malapena ed osservando scrupolosamente le realtà, che solo la rabbia diventa un’arma con cui drogarsi di sdegno coscienzioso antagonista all’abito di passivismo verso le convenzioni burocratiche, legislative ed informative.
Eco & Narciso non nasce con la pretesa di richiamare a sé una verità assoluta su come si capovolga il mondo moderno. Ma attraverso l’analisi introspettiva di alcune perle letterarie, riaffiorano percorsi storici allineati a dei sentimenti umani che sembrano scriversi nell’immediatezza del pensiero congetturato.
Senza troppi giri di parole, introdurrei la visione dell’idilliaca malinconia propria della poetica di Cesare Pavese, autore del novecento: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”
Ebbene, la citazione, estrapolata dall’ultimo romanzo dell’autore “La luna e i falò”, organizza l’orizzonte in prospettiva ad una sequenza d’immagini: cantare speranze nella fierezza di essere gli antenati delle future generazioni; opprimere nell’immensità una serie di postulati intenti a fondere giustizia e pace; sentirsi a casa, in ogni dove, con la beata sensazione di far parte di una comunità che ogni giorno costruisce le fondamenta di una sana esistenza, impegnata nella cura per la natura, piuttosto che complice dell’auto-distruzione sociale con politiche neo-liberali.
E Pavese, potrebbe essere il poeta da interiorizzare, nel panorama di spettacolare superficialità mondiale: scenario artefatto di consumi, trascritti dai poteri forti, imposti ad annullare le personalità elargendo multinazionali. Scrivere dei meccanismi di capitalismo sarebbe per questa rubrica retorico, scontato ed anche riduttivo per l’ampiezza della faccenda; rilegare le sensazioni di un giovane è invece, attraverso la penna, forse l’unico atto che possa durare nel tempo.
Cesare Pavese è uno dei poeti che raramente troviamo nei libri di testo per liceali; militò nel PCI e la sua vita fu una lunga contraddizione incalzata elegantemente dall’arte della poesia. Nei suoi versi possiamo ritrovare la delicatezza emotiva che si affianca all’idea, all’ottica singolarizzata la quale diviene poi sintomo collettivo di un movimento di pensiero.
Nel suo repertorio di argomentazioni, Pavese ha sempre mostrato un percorso dicotomico, sospeso a metà tra l’incomprensione metaforica e la semplicità linguistica, ornata da una disarmonica tristezza dell’essere. Il raggiungimento della consapevolezza, della finalità quanto della finitezza dell’uomo, sono oggetti scrutati dall’occhio mistico e timido di un personaggio che ha, infine, sgranato la malinconia dell’irraggiungibile. Scrivendo d’amore ha cessato l’illusione della felicità, con parole di speranza verso quel lancio di morbosità affettiva, che lo rese schiavo della folgore passionale quanto avventuroso trascrittore dell’impeto proveniente dall’anima. Un parresiasta dell’emozione: uomo che ricavò dignità attraverso la conquista di una sconfitta sociale, realizzata dalla comunione di un contesto storico-politico colpevole, ieri come adesso, di strumentalizzare attraverso l’indifferenza, una classe cittadina inutile e inoperosa.
Perché con la gioia di concretizzare il paradosso storico per eccellenza, nell’epoca dei social manca spirito di aggregazione; la coscientizzazione è una pratica obsoleta e la riflessione un rigetto sistematico di pensieri a scadenza breve. Parlare d’impegno e responsabilità è disarmante, constatando che chi si occupa di queste contentezze si esprime “per passione”, rigettando introiti per l’etica, per poi sentirsi vociferare intorno che non ne vale la pena perché “spendere fatiche e avere in cambio nulla non è soddisfacente quanto fottere il sistema”, magari senza sporcarsi le mani tra attivismo e realtà, magari essendone complici attraverso l’evasione fiscale e le raccomandazioni.
Forse un comunista di stampo umanitario, oggi declasserebbe la fatica del lavoro per un’ambizione superiore, riproponibile col titolo “Il mestiere di vivere”: “Quando si può dire “Non ho agito per me, ma per un principio superiore” avendo avuto cura di scegliere questo principio il più duraturo e ampio possibile e magari eterno, si è sicuri che la nostra soddisfazione finirà molto tardi o non finirà mai”. Sarebbe fantastico poterne farne per l’intera umanità uno slogan cui sottostare, giusto a indicare una maestosa benevolenza verso un futuro migliore.
Alessandra Mincone