Il Mondiale di Russia è finito, anche se per l’Italia non è mai iniziato. Lo abbiamo vissuto da fuori, ognuno dalla poltrona di casa propria ma senza i nostri beniamini in campo. A un tratto pensavamo di poterne fare a meno, di poter fare altro piuttosto che star davanti a un mondiale senza italiani, a un torneo che in molti sanno che non prendiamo così leggermente, tanto che a volte ci fa da riferimento per posizionare gli eventi e noi stessi nel tempo. Alla fine, comunque, pur se con l’amaro in bocca, non abbiamo saputo dirgli di no.
Il ritorno con la Svezia agli spareggi ormai è solo un ricordo, un clamoroso 0-0 che non mise in luce tanto i reali valori sul campo quanto il gap organizzativo e mentale che gli Azzurri si portavano dietro, soprattutto in panchina.
Increduli, perché fino alla fine ci era difficile pensare che quel pallone non sarebbe entrato in rete, che l’acrobazia di Florenzi o la capocciata di Parolo non servissero a niente.
Sulle bocche di tutti Insigne, Ventura, la debacle con la Spagna che ci dimostrò quanto stessimo arrancando; nessuno che però pensasse veramente che sarebbe potuta andarci veramente male. Noi con Immobile, senza Balotelli ma con i soliti Parolo e Jorginho, con in panca quell’Astori che di lì a poco avrebbe lasciato un vuoto incolmabile. Loro senza Ibra, forse senza un gioco (pure peggio di noi) e senza fretta, ma sporchi, cattivi e infine vincenti.
Una partita strana, che paradossalmente l’Italia di Ventura meritava quanto meno di portare ai supplementari, se non di vincere. Una partita che se da un lato ha preannunciato da sola un Mondiale diverso, incerto e pieno di colpi di scena (come abbiamo visto, fin dalla fase a gironi), dall’altro ha poco in comune con una competizione dove si è segnato tanto quasi in ogni partita.
Forse questione di VAR, o questione di mentalità, perché le ambizioni che nutrono le squadre con la posta in gioco alta (e tempo poco) possono risultare determinanti. Il Mondiale di Russia non può non averci fatto divertire in tal senso, perché ha dato spazio a tutti nel copione, in positivo o negativo.
Chissà fin dove saremmo arrivati con la nostra Italia. Intanto a giugno abbiamo perso con gli attuali campioni del mondo, e questo da un lato toglie un po’ peso alla sconfitta. Al netto di ogni difficoltà, forse avremmo potuto essere al posto di chi ci ha tenuto fuori, ai quarti di finale a cedere il passo all’Inghilterra. Fantasia probabilmente, eppure per molto abbiamo pensato che questo torneo volesse vendicarsi, e che ad ogni piccola impresa, ad ogni goal o risultato inaspettato, volesse farci credere che in questo marasma qualcosa di buono avremmo potuto combinarlo anche noi.
Giocare a calcio in un Mondiale è molto più difficile che farlo prima. Non bastano i curricula, un gioco stellare, né le reputazioni di erede e/o di trascinatori di un popolo. A muover gambe e testa (prima che alla fine vinca per forza il migliore, si intende) è qualcosa di più grande. Potremmo forse chiamarla passione, una forza che un paese alla ribalta per una partita di calcio riesce a passare a chi sta sul campo.
Di emozioni ne ha regalate il mondiale, e rispettarle porta onore a chiunque. Da Kasper, che ha parato (bloccato) un rigore davanti a suo padre, a chi una palla dal dischetto ha sbagliato a calciarla. Da Leo Messi a Cristiano Ronaldo, che hanno salutato la Russia con un penalty a testa sbagliato, ma con responsabilità e pesi sulle spalle completamente diversi.
Pensiamo all’Islanda, e allo scenario improbabile di undici giocatori che la pareggiano contro la pur malridotta Argentina passando solo un centinaio di palloni con un catenaccio d’altri tempi, o al Senegal, che paga le nuove regole sul fair play e regala al Giappone la qualificazione. Agli stessi nipponici, poi, che lo scherzo al Belgio stavano per farlo. Ai meme con Neymar che rotola, che forse ha trascorso più tempo in terra che alzato. Temuto e forse anche decisivo se Courtois avesse smesso di crescere in altezza da adolescente.
All’Uruguay, a Jimenez che piange a dirotto mentre continua a toccar palloni a dieci dal termini, a un Tabarez che avremmo volentieri voluto ancora in piedi ad esultare, e a un certo Cavani che proprio non la smette di essere decisivo.
Pensiamo ovviamente alla Croazia, e a un sogno insperato ma poi cercato e voluto, che non è riuscito a realizzarsi davanti allo strapotere tecnico e fisico della Francia campione del mondo: la migliore di tutti. E quindi alla Germania, a cui somigliamo tremendamente. A quel pallone di Taremi sull’esterno della rete con l’Iran a un passo dall’inafferrabile, o la Russia spinta da un sergente che ha ridato spolvero a una tra le nazionali con meno potenziale dell’intero torneo, semplicemente alimentando la voglia di vincere. Quella, infatti, non manca nemmeno all’ultimo degli arrivati. Nemmeno a Panama, che per fare un goal contro l’Inghilterra le prova davvero tutte, per poi riuscirci ed esplodere di gioia (perdendo 6-1).
Questo è stato Russia 2018, e forse non avremmo desiderato un Mondiale migliore da vivere come spettatori. Abbiamo sentito il bisogno di schierarci, di forzare simpatie che non avevamo per difendere delle antipatie, di provare l’emozione di tifare per un goal che non arriva, o in generale a sorprenderci e a rimanere quasi estasiati per una certezza che si trasforma in dubbio. Al fianco delle piccole, degli Islandesi, degli Iraniani, degli Uruguaiani o dei Croati, a fianco di tutti e pure al di là di qualche biscotto passato, tranne che al fianco di chi ha tante o più stelle di noi sul petto (anche senza Mondiale, insomma, si continua a tifare Italia).
Abbiamo acceso la TV senza che nessuna pratica sociale ce lo obbligasse. Abbiamo acceso la TV per il Calcio, per uno sport che ha tanto altro da raccontare oltre che alle imprese della propria squadra del cuore. Rispettare un sogno altrui, provare solidarietà.
Forse non capiterà tante altre volte, perché tra quattro anni l’Italia conta di esserci per riscattarne otto di attesa. Ci dimenticheremo presto delle buone maniere, forse sì, ma finché c’è tempo potremmo dire di aver apprezzato qualcosa che non ci aspettavamo nemmeno di stare a commentare. Tanto prima o poi ci passano tutti, prima o poi sapranno che vuol dire guardare e tifare. Per lo sport e per le emozioni di tutti.
Nicola Puca
Fonte immagine in evidenza: ilromanista