In queste settimane quando si è parlato di Renzi e Jobs Act si è parlato tanto di articolo 18. Ma il problema non è tutto lì.
Il diritto di non subire licenziamenti discriminatori è importante, ma il centro della riforma, per come è stata presentata dal governo, è un altro. E lo stesso Renzi ha attaccato frontalmente la CGIL su un’altra cosa: la necessità di dare qualcosa ai precari. “Dove eravate?”, ha insinuato nel suo celebre video su “Marta e Giuseppe”, con molta sicurezza e una certa ignoranza dei ruoli delle parti sociali.
E ha fatto bene la CGIL e il NIDIL in particolare, la categoria dei lavoratori precari di cui faccio parte, ad accettare la sfida.
Mentre i partiti di governo, anche e soprattutto quello di Renzi, negli anni hanno teorizzato e applicato l’espansione della precarietà (che originariamente veniva ottimisticamente chiamata flessibilità) il sindacato ha sempre provato a contenere il cupio dissolvi delle forme di lavoro stabili.
E con il NIDIL ha svolto e sta svolgendo un’opera importantissima di vertenza e sorveglianza dove le peggiori tra le 46 forme di contratti precari, che porta da tempo a stabilizzazioni e regolamentazioni. Questo lavoro ora è documentato in una pagina apposita sotto l’hashtag #doveeravamo.
Ma il premier, da toscano, potrebbe conoscere la consulta delle professioni, un esperimento territoriale avviato fin dal dicembre 2012 proprio dalla CGIL, che riunisce lavoratori autonomi “genuini” (ovvero per i quali la natura “autonoma” del lavoro svolto è effettiva), per affrontare quelle necessità e quella carenza di tutele che anche loro spesso soffrono
Il problema del Jobs Act è che non sembra proprio dare una mano ai precari. Se, a parte due o tre, i 46 contratti precari non vengono cancellati, il “contratto unico a tutele crescenti” che andrebbe a sostituire il lavoro a tempo indeterminato sarebbe poco più del 47esimo contratto precario, almeno per i primi 3 anni. E siamo sicuri che i datori, con un menu tanto vasto davanti, stavolta sceglierebbero proprio quest’ultimo?
Esiste già una forma contrattuale che è stata pensata come inserimento al lavoro a tempo indeterminato: è l’apprendistato, che è già sgravato da obblighi contributivi per i datori.
Eppure questa forma, che all’inizio andava benino, è ora in pesante sofferenza per la concorrenza dei ben più allettanti contratti a termine a cui è stato progressivamente tolto l’obbligo di indicare una causale. Da ultimo proprio dallo stesso governo Renzi, con il decreto Poletti.
Insomma non solo i contratti precari resterebbero, ma anche quel sogno sempre più remoto di una assunzione a tempo indeterminato verrebbe cancellata in favore di una confusionaria replica dell’apprendistato come contratto “finto-unico” a tutele crescenti. Un bel pasticcio, che farà ancora più confusione nella già disastrosa legislazione del mercato del lavoro e metterà in guai ancora peggiori la povera Marta.
Per questo i precari farebbero bene a stare attenti a chi parla per loro e promette grandi riforme, perché rischiano solo di essere usati come alibi, o scudo umano, dai soliti politicanti che perseguono il totem thatcheriano della deregolamentazione del lavoro. Una formula che in particolare nel nostro paese oltre a creare ingiustizia sociale non funziona.
Ciò che serve invece sarebbe mettere mano allo Statuto dei Lavoratori per includere anche i precari che ne sono esclusi. Cambiando paradigma per alcuni diritti fondamentali, non più legandoli al lavoro fisso ma concependoli come diritti universali di chi lavora, e che spettano quindi anche ai precari, ai parasubordinati, ai lavoratori autonomi che non possono permettersi il riposo (le ferie), la maternità, i periodi di malattia.
È questa la sfida che va lanciata al governo, e che è stata lanciata anche con una petizione online; i precari e le precarie dovrebbero prendere parte alla contesa per il loro futuro e a venire in piazza il 25 ottobre a Roma assieme alla CGIL, agli studenti e agli altri lavoratori. #lovoglioancheio.