Dall’Africa meridionale al Nord America, dall’Australia all’Asia passando per l’Europa: le catastrofi naturali verificatesi nel 2019 hanno causato la morte di oltre 4500 persone e provocato perdite economiche di circa 232 miliardi di dollari. Questo l’esito a dir poco raccapricciante emerso da due report sull’anno appena trascorso e condotti rispettivamente dall’ONG inglese Christian Aid e dal gruppo Aon, che opera a livello mondiale nell’offerta di servizi di consulenza in settori come quelli del risk management.
Il report dell’organizzazione non governativa britannica, “Counting the Cost 2019: a year of climate breakdown”, rivela che le perdite in termini di vita umana provocate dalle catastrofi naturali sono risultate più alte nei Paesi più poveri. Il ciclone Idai, per esempio, che nel marzo 2019 si è abbattuto in Zimbabwe, Mozambico e Malawi ha provocato la morte di 1300 persone, mentre la tempesta tropicale Imelda, che nel settembre dello stesso anno ha colpito il Texas, di cinque. Sono state però le alluvioni verificatesi in India tra il giugno e l’ottobre dello scorso anno ad aver determinato il più elevato numero di decessi: 1900 le persone che hanno perso la vita.
In termini economici, invece, è nei Paesi più ricchi che le catastrofi naturali hanno provocato i danni più gravi. In particolare, sono stati gli incendi che tra ottobre e novembre hanno mandato in fumo migliaia di ettari di terreno in California ad aver rappresentato il disastro più costoso, determinando la perdita di circa 25 miliardi di dollari. Gli incendi californiani sono seguiti, quanto a danni provocati, dai tifoni Faxai e Hagibis che, verificatisi entrambi in Giappone tra il nono e il decimo mese dell’anno, hanno causato circa 20 miliardi di danni. Sono proprio questi ultimi dati – che fanno riferimento alla quantificazione economica dei danni arrecati a cose e persone da eventi naturali di vario genere ma connessi, tutti, ai cambiamenti climatici – a fornire un interessante spunto di riflessione su un fenomeno di formazione relativamente recente: la finanziarizzazione della natura.
Finanziarizzazione della natura e assicurazioni delle catastrofi naturali
La crescente rilevanza di questo fenomeno si spiega in base alla progressiva combinazione di due crisi e all’aumento delle disuguaglianze da esse generate. La prima crisi a cui si fa riferimento è quella economica, la cui manifestazione più recente è rappresentata dalla crisi dei titoli subprime e del mercato immobiliare verificatasi tra il 2007 e il 2008. Il capitale, per reagire al declino del profitto, ha anzitutto cominciato a privatizzare ciò che – fino a quel momento – ancora sembrava sfuggire alla logica del mercato. Nel tentativo di sottrarsi a un eccessivo indebolimento, ha poi smesso di investire nell’economia reale (cioè quella il cui tasso di profitto era declinante) e ha realizzato una graduale finanziarizzazione, che è ciò che consente di realizzare consistenti profitti fittizi. L’altra crisi che contribuisce a spiegare il fenomeno della finanziarizzazione della natura è rappresentata dalla crisi ecologica: la moltiplicazione delle catastrofi naturali e l’inasprimento dei danni da esse provocati determinano un aumento del costo globale delle assicurazioni. La crisi ecologica produce, quindi, un impatto negativo sul tasso di profitto che porta a un’evoluzione delle compagnie assicurative che si vedono costrette a sviluppare nuovi modi per garantire la ripartizione del rischio. La cartolarizzazione dei rischi climatici rappresenta lo strumento principale di quest’evoluzione.
Cat bond
Uno dei prodotti finanziari derivati dalla cartolarizzazione dei rischi climatici è rappresentato dalle cosiddette catastrophe bond (obbligazioni catastrofe). Un’obbligazione è un titolo di credito o di debito scambiabile su un mercato finanziario e oggetto di una quotazione. I cat bond sono frazioni di debito il cui obiettivo è quello di ripartire i rischi e i danni provocati dalle catastrofi naturali il più ampiamente possibile, nello spazio e nel tempo, così da renderli finanziariamente sostenibili. I cat bond hanno fatto la loro apparizione sul mercato a metà degli anni Novanta, in seguito al verificarsi dell’uragano Andrew e del terremoto di Northridge.
L’uragano Andrew, nel 1992, ha provocato danni per oltre 26 miliardi di dollari, soprattutto in Florida e Louisiana, mentre il terremoto di Northridge del 1994 è stato la causa di 15 miliardi di dollari di danni nell’area di Los Angeles. Dal punto di vista finanziario, un disastro che colpisce una zona altamente popolata rischia di generare effetti rovinosi sul bilancio di una compagnia assicurativa. Questo spiega perché i due eventi di cui si è detto hanno spinto il settore delle assicurazioni a diventare più consapevole circa l’impatto finanziario delle catastrofi naturali. L’organismo che emette un cat bond – che può essere tanto una compagnia assicurativa quanto uno Stato – crea una società ad hoc, la c.d. special purpose vehicle (SPV), incaricata di ricercare investitori. Una volta trovati, l’organismo in questione versa loro degli interessi in cambio del denaro che questi gli prestano. Se la catastrofe naturale assicurata si verifica, gli investitori perdono il loro denaro che sarà impiegato per coprire i danni e rimborsare i danneggiati. In caso contrario, l’investitore intascherà tutti gli interessi. La maturità media di un cat bond, cioè il termine in cui arriva a scadenza e gli interessi maturano, è tendenzialmente di tre anni. Il valore di questi strumenti finanziari oscilla in base alla maggiore o minore probabilità che la catastrofe naturale si verifichi oltre che, naturalmente, in base alla domanda e all’offerta del titolo in questione.
Catastrofi naturali e assicurazioni nel panorama italiano
Non è necessario allontanarsi troppo per sentir parlare di catastrofi naturali o di eventi climatici estremi. Il 2019, infatti, è stato un anno terribile anche per il nostro Paese. Tra frane, trombe d’aria e ondate di calore, sono stati 157 gli eventi catastrofici che hanno messo in ginocchio l’Italia, provocando la morte di 42 persone. Il tributo pagato in termini di vite umane è stato affiancato dai danni subiti dal patrimonio immobiliare. Da qui la proposta di legge di Michela Rostan, “Istituzione del programma nazionale per la copertura assicurativa dei danni da calamità naturali ad edifici privati“, che promuove un cambio di passo sulle politiche risarcitorie.
Come spiega Rostan, in quota Liberi e Uguali, l’Italia si distingue per una gestione dei danni da calamità naturali che fa carico quasi esclusivamente sull’intervento statale, con risultati che non sempre si possono dire soddisfacenti. Questa circostanza, unita alla riluttanza degli individui ad acquisire una protezione contro le calamità naturali, è alla base della scarsa diffusione delle coperture assicurative contro tali eventi. In Italia, infatti, sono solo 836 mila le abitazioni coperte da assicurazioni sulle catastrofi naturali. Da qui, la necessità di sviluppare un sistema di coperture assicurative che si affianchi allo Stato e che permetta di accrescere la tutela della proprietà immobiliare degli italiani. Una soluzione virtuosa, a riguardo, sembrerebbe essere rappresentata dalla creazione di un sistema misto che favorisca la partecipazione dei cittadini, del sistema assicurativo privato, di quello bancario e, in ultima istanza, anche dello Stato. Obiettivo della proposta di legge summenzionata è proprio quello di rendere obbligatoria la copertura assicurativa per tutti i proprietari di immobili.
Pur senza voler entrare nel merito della proposta di legge né volersi cimentare nell’analisi di complessi strumenti finanziari, ciò da cui non si dovrebbe prescindere è domandarsi se la strada imboccata rappresenti davvero un valido modo per far fronte alle stringenti sfide poste dal climate change. Perché se è vero che a pensar male si fa peccato ma si indovina, allora risulta difficile continuare a difendere le buone intenzioni di chi si fa promotore di iniziative politiche e pratiche economiche che intervengono solo a danno fatto. Il cambiamento climatico e le minacce e le sfide che lo accompagnano impongono necessariamente una trasformazione nel nostro modo di approcciarci al futuro. Una trasformazione che ci permetta di non essere solo spettatori passivi, che si adoperano quando un danno si è ormai irrimediabilmente verificato, ma che ci consenta di diventare soggetti capaci di un atteggiamento proattivo. La proattività, tipica di chi è capace di agire in anticipo evitando che un danno si verifichi, potrà forse salvarci dal collasso climatico. Ma se non saremo capaci di un simile cambiamento la scelta più intelligente sarà quella di stipulare un’assicurazione sulla vita.
Virgilia De Cicco