Le ultime vicende di cronaca politica, che riportano lo scontro frontale nel PD tra i renziani e la minoranza, raccolta intorno alla vecchia guardia dei DS, hanno posto nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica la discussione della riforma del Senato.
Il Premier Matteo Renzi ne fa una questione sulla quale si gioca la credibilità e la permanenza stessa del suo Governo, mentre l’ala guidata da Bersani, Cuperlo e Speranza teme l’egemonia della maggioranza del partito nelle candidature per le prossime politiche; inoltre forti sono le proteste dei partner nell’esecutivo e delle opposizioni, manifestando per la prima volta il pericolo di disgregazione della maggioranza di Governo, che ha superato perfino votazioni più difficili, come ad esempio il Jobs Act.

Ciò che provoca i questi malumori è il carattere stesso della riforma del ddl Boschi, nonostante rispetti gli accordi del Patto del Nazareno (alla luce di questo particolare da considerarsi tutt’altro che in soffitta).

Il “nuovo” Senato sarà una Camera delle Autonomie territoriali, composta da 100 parlamentari, invece che dai 150 previsti nella prima bozza e dagli attuali 315. Di questi, 74 consiglieri regionali verranno eletti in ciascun Consiglio Regionale, con metodo proporzionale, 21 sindaci scelti dalle Regioni, in proporzione alla loro popolazione e in modo tale che ciascuna Regione non avrà meno di 2 senatori; infine altri 5 verranno nominati dal Presidente della Repubblica, tra personalità illustri o tra quegli stessi senatori scelti dalle Regioni che, al termine del proprio mandato, avranno “illustrato la patria per i loro altissimi meriti”.
Il motivo dell’elezione con metodo proporzionale dei 74 senatori è di evitare che la composizione della futura Camera rispecchi la composizione delle maggioranze dei rispettivi consigli regionali, “nei quali” verranno eletti.
O forse sarebbe meglio dire “dai quali”?

Infatti il testo di legge pare soggetto ad una pregiudiziale che può bloccarne i lavori.
Sollevata sulle due diverse preposizioni in fase di approvazione, è in questi giorni all’esame del Presidente Pietro Grasso, che cerca un accordo con Renzi con cui, agevolando l’iter legislativo, accolga le osservazioni dei senatori.

Tuttavia, questa trattativa tra le due cariche dello Stato comunque non prescinderà dalla formazione di un’aula di autonominati, che è il vero punto critico di questo processo di revisione costituzionale.

Sul modello della riorganizzazione delle Province (non a caso inserita nello stesso progetto di legge), i senatori non verranno più scelti dagli elettori, ma in base a manovre di palazzo, su accordi tra forze politiche che gli italiani percepiscono sempre più distanti dai loro problemi e dalle loro esigenze.

Il Senato non potrà più votare la fiducia al Governo, ponendo fine al bicameralismo perfetto, inserito dall’Assemblea Costituente per evitare l’insediamento di un esecutivo che trascurasse il bene comune. Sarà un organo principalmente consultivo, soprattutto sul bilancio. Avrà poteri di voto su riforme costituzionali, leggi costituzionali, leggi sui referendum popolari, leggi elettorali degli enti locali, diritto di famiglia, matrimonio, salute e ratifiche dei trattati internazionali; li perderà bensì su amnistia e indulto, temi attuali e legati al problema delle carceri.

Ancora più pericolosa è la riforma del Titolo V. Eliminando la legislazione concorrente tra Stato e Regioni, prevedendone il commissariamento per motivi di bilancio e la delega in alcune materie alle più virtuose, premiandole, contiene il rischio di aumentare il divario tra Nord e Sud.

Gli ultimi sviluppi di cronaca di Montecitorio, dunque, riportano il bollettino di una guerra di posizione all’interno del PD, perdendo di vista la vera posta in gioco – una democrazia in pericolo.

Mai prima d’ora si è manifestata una spaccatura così profonda e dolorosa tra la politica e i cittadini, sui quali si abbattono i costi di una crisi economica, politica, sociale e adesso anche democratica.

Eduardo Danzet

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