“Siccome amo te (e ti amo dunque, o donna tarda a capire, come il mare ama un sassolino sul fondo, proprio così il mio amore ti inonda – e possa io essere ancora accanto a te il sassolino, se i cieli lo permettono) amo il mondo intero”.

Così esordiva Franz Kafka in una delle innumerevoli lettere che costituiscono frammenti di un sublime scambio epistolare con la giornalista Milena Jesenská.

Kafka e Milena si conobbero nell’ottobre 1919, quando la giornalista gli rivelò di voler tradurre alcuni suoi racconti in ceco.

Quest’amore dai toni virulenti e malinconici, angosciosi e inquietanti, tormentosi e rassicuranti, sublimi e travagliati spicca il volo nell’aprile 1920, data della prima lettera che avrebbe inaugurato la lunghissima e straziante corrispondenza  tra lo scrittore e la donna in cui egli avvertì “il fuoco della passione”. Come una valanga di neve precipita verso valle accrescendosi smaniosamente, così dirompeva il sentimento tra i due amanti.

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Una leggera e inconscia timidezza emerge dalle prime lettere, in cui Kafka si rivolge a Milena con il “lei”, quasi come a voler tentare di esorcizzare la titanica passione che, a dispetto di tutto, si faceva strada nella sua anima. Una passione che si manifestava impudicamente con l’insonnia che lo perseguitava, con la malattia polmonare che “era soltanto uno straripare della malattia spirituale”. Pietro Citati scrive al proposito:

“Milena era per Kafka fuoco e le sue lettere generavano fuoco, e lui era come il moscerino o la farfalla dell’apologo iranico, che si bruciava alla fiamma. Senza essersi mai conosciute, le due anime si accesero l’una dell’altra: la divisione le teneva unite più della vicinanza; non era necessario il gesto dei corpi, il bacio, l’abbraccio, bastava l’impulso incontaminato del desiderio, come se solo la distanza potesse cancellare il limite delle persone chiuse in se stesse”.

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Nel maggio 1920, la giornalista propose a Kafka di recarsi a Vienna e trascorrere dei giorni con lei. Lo scrittore fu pervaso da una deleteria, ma sublime inquietudine che riuscì ad estirpare da se stesso soltanto quando, a fine giugno, accettò l’invito, arrendendosi alla dispotica e superba tirannia dell’amore. Di quei quattro giorni passati a Vienna,  Milena scrisse a Max Brod:

“Non c’era bisogno di nessuno sforzo, tutto era semplice e chiaro, lo trascinai per le colline presso Vienna, lo precedevo correndo mentre lui camminava, adagio pestando i piedi dietro a me, e se chiudo gli occhi vedo ancora la sua camicia bianca e il collo scottato dal sole e lo vedo affaticarsi”.

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Appena rientrato a Praga, con la furia tipicamente frenetica della felicità, Kafka inviò quattro lettere alla sua amata. “Non posso, non so come, scrivere altro se non ciò che riguarda noi, noi nell’affollamento di questo mondo, soltanto noi. Tutto il resto mi è estraneo. Ingiusto! Ingiusto! Ma le labbra balbettano e il viso posa nel tuo grembo”; si era innescata in lui la tipica “soggezione amorosa”.

“Anche i giganti hanno debolezze, persino Ercole ebbe, credo, una volta un deliquio. Ma a denti stretti e di fronte ai tuoi occhi che vedo persino di pieno giorno, so sopportare ogni cosa: lontananza, ansietà, apprensione, mancanza di lettere”.   

La disarmante contentezza in cui visse Kafka per quel tempo crollò al cospetto di un’affermazione di Milena riguardo a suo marito: “Sì, hai ragione, io gli voglio bene. Ma, Franz, anche a te voglio bene”. L’angoscia, condizione esistenziale che seguiva i suoi passi al pari di un’ombra, si impossessò nuovamente di lui.

“Lontano da te non posso vivere, se non dando pienamente retta all’angoscia, dandole più retta di quanto essa non voglia, e lo faccio senza costrizione, con entusiasmo, mi riverso in essa”.

Nell’agosto 1920, Milena e Kafka si incontrarono una seconda volta. Ormai la felicità era svanita e, al contrario, lo scrittore temeva quasi le lettere della sua amata.

“Amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso”.

L’amore sospeso e assorbito dalla carta dei loro scritti lentamente si spense, senza neanche troppo clamore. Kafka decise, quasi senza volerlo, di ritornare nel buio che l’aveva sempre accolto, di non essere più vittima dei fantasmi delle lettere, interruppe la corrispondenza perché “l’unico mezzo per vivere era tacere”. Ma Milena per lui sarebbe sempre rimasta

“quel motivo che basta a far sì che di notte, da solo, mi svegli e non riuscendo a riaddormentarmi, inizi a sognarti”.

Clara Letizia Riccio

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