Nella giornata di sabato 18 luglio, svariate decine di attivisti si sono scontrati con la polizia nel pieno centro di Melbourne. Le forze dell’ordine dello stato di Victoria hanno utilizzato spray al pepe per sedare le tensioni e tenere a debita distanza i dimostranti anti-razzisti e i membri di Reclaim Australia. L’argomento è specificamente intestino al dibattito politico locale australiano, ragion per cui, in Europa, a migliaia di chilometri di distanza dal paese “sottosopra”, è raro che se ne sia sentito parlare.
Reclaim Australia è un movimento di ispirazione anti-islamica che, all’interno del paese, costituisce la novità principale nel panorama dell’aggregazionismo civile ultra-conservatore, e che al di fuori di esso si presenta come un’espressione regionale del crescente sentimento islamofobo che sta investendo tutto l’Occidente da qualche anno a questa parte.
Alla ribalta presso i media del paese, Reclaim Australia ci è arrivato dopo i tragici fatti di Sydney del dicembre scorso, quando l’estremista islamico Man Haron Monis sequestrò diciassette persone nel Lindt Cafe di Martin Place, nel cuore della city, esponendo una bandiera dello Stato Islamico. Dopo sedici ore di assedio, le teste di cuoio irruppero nella caffetteria liberando gli ostaggi, due dei quali, però, perirono con il sequestratore. Da quel momento in avanti, l’islamofobia ha cominciato a dilagare in maniera più consistente anche downunder, e Reclaim Australia ha cominciato ad indire manifestazioni in svariate zone del paese.
Abito a Sydney, e stamattina ho deciso di alzarmi di buon’ora per andare ad assistere personalmente ad uno dei sit-in di Reclaim Australia, di scena proprio a Martin Place, il cuore ferito del Sydney CBD.
Ciò che ho visto è stato bene o male la conferma di tutti i pareri maturati nella mia testa nell’ultimo periodo, man mano che cominciavo a reperire informazioni su questo fenomeno.
Reclaim Australia è, di certo, una realtà composita, che ospita al suo interno persone con background differenti, e non tutte necessariamente di razza caucasica. Infatti, sulla carta, i principi che muovono le azioni dei membri di Reclaim Australia sono l’uguaglianza al cospetto della legge, la parità di genere, il diritto di parola e il diritto di esiliare “traditori” della patria. Menzioni specifiche a tendenze politiche o a superiorità razziale non ve ne sono.
All’interno del movimento coabitano, dunque, realtà sfaccettate: estremisti cristiani, sionisti, naziskin dello United Patriot Front, persino immigrati asiatici di vecchia data, tutti accomunati dal sentimento conservatore tipico di chi vive in una terra colonizzata e vede di mal occhio il “diverso” o chiunque giunga ad abitare a sua volta quella terra minacciando il preservarsi dello stile di vita ivi costituito. Ed è proprio questo ciò a cui Reclaim Australia si oppone: la supposta “islamizzazione” del paese.
Pochi giorni fa ho scambiato quattro chiacchiere con un ragazzo del centro sociale Black Rose di Newtown, il suburb più alternativo e “ribelle” di Sydney, il quale mi ha spiegato che la legge federale del Nuovo Galles del Sud contempla e tollera l’aggregazionismo spontaneo previa comunicazione agli organi preposti, senza la necessità di una ratifica da parte del primo cittadino, come accade in Italia. Questo rende più snello l’iter che può far coesistere due o più manifestazioni in uno stesso luogo, anche se in antitesi tra loro.
Oggi il centro di Martin Place era una sorta di buffer zone presidiata dalla polizia, perché dall’altra parte andava in scena la contro-manifestazione degli attivisti “No Room For Racism“: studenti, insegnanti, militanti socialisti, rappresentanti della società civile australiana sia bianca che aborigena.
Dopo gli scontri di ieri a Melbourne, la polizia era in stato di massima allerta e la zona doppiamente presidiata per coprire i punti di entrambi i sit-in. Dopo avermi consegnato un sorridente “sorry mate“, uno degli agenti mi ha sbarrato la strada ed indicato il giro da fare per unirmi alla contro-manifestazione.
A differenza della sua controparte, nel rally antirazzista ho notato la completa assenza della Southern Cross, la bandiera nazionale australiana, a favore di alcuni vessilli su cui un sole giallo divide la linea orizzontale che separa il rosso dal nero. Dal 1971 questa è la Australian Aboriginal Flag, e gode parimenti di status di bandiera ufficiale.
Oltre alle parole spese contro la politica ultraconservatrice ed ecoscettica del misogino e tremendamente bogan Primo Ministro Tony Abbott, sono stati proprio gli interventi di alcuni attivisti aborigeni a riscuotere maggior successo tra la folla della contro-manifestazione. Fortunatamente la maggior parte degli australiani è conscia del fatto di vivere su una terra rubata, di avere antenati che si sono macchiati di un genocidio e che hanno poi varato politiche di segregazione razziale disumane come la White Australia Policy o quelle che hanno portato alle cosiddette Stolen Generations (allontanamenti forzati di bambini aborigeni da famiglie e luoghi d’origine), ma in qualche caso la durezza di comprendonio è dura a morire.
La storia dell’Australia è una storia di immigrazione, l’Australia come entità politica è il prodotto diretto dell’immigrazione, e il paese democratico, sicuro e splendido che è oggi ha origine nel multiculturalismo e nella pacificazione sociale tra etnie, culti e forme di pensiero. Una pace, purtroppo, tanto limpida quanto fragile.
Di seguito, alcune foto del counter-rally:
Cristiano Capuano