Il Real Madrid ha stravinto la Supercoppa spagnola demolendo sia all’andata che al ritorno gli eterni rivali del Barcellona. Successo ottenuto una settimana dopo aver trionfato nella Supercoppa Europea contro il Manchester United di uno che Madrid la conosce bene, José Mourinho. A guidare dalla panchina i Blancos, che mai come quest’anno ai nastri di partenza della Liga si presenteranno come i favoriti numero uno, c’è Zinedine Zidane, artefice di una revolución silenciosa che ha letteralmente cambiato il modo di giocare e, finalmente, l’approccio mentale alle gare dei madrileni.
Una delle tante regole non scritte del calcio recita che un grandissimo calciatore raramente diventa un grande allenatore. Anzi possiamo senza dubbio affermare che, fino ad adesso, solo Johan Cruijff ha sfatato questo tabù. Magari si amareggeranno Maradona e Platini, ma solo il compianto Profeta del gol ha ottenuto successi importanti anche da tecnico, dando un forte contributo alla bacheca blaugrana, prima che i problemi di salute e il Milan di Fabio Capello mettessero fine alla breve, ma vincente, carriera dell’olandese. Ritornando a Zidane, che questa regola l’ha già imbrattata con forza, c’è molto proprio di Milan nel bagaglio culturale calcistico del franco-algerino, dato che Zizou si è seduto per la prima volta su una panchina quando il Real Madrid decise che sarebbe stata la persona adatta ad affiancare Carlo Ancelotti, vincitore di tutto sulla panchina rossonera, nella stagione 2013-14. Quella della décima per intenderci.
Ma facciamo un passo indietro. C’è sempre l’Italia e ancora il Milan nel destino di Zidane. Bordeaux, marzo 1996, la formazione girondina compie un’impresa che rimarrà nella storia del calcio, eliminando i rossoneri vice campioni d’Europa dalla Coppa Uefa con un 3-0, dopo aver perso a San Siro 2-0. Protagonisti della serata: un elegante trequartista dal passo felpato e Christophe Dugarry, autore di una doppietta. Inutile rammentare su chi piombò la società, allora in via Turati. L’elegante trequartista si trasferì, però, alla Juventus per 7,5 miliardi di lire (sì, avete letto bene!) dove ebbe un’altra infarinatura di tattica da un altro tecnico che di trofei importanti ne avrebbe ottenuti, Marcello Lippi.
Un 4-3-1-2 del viareggino, con ampia libertà di svariare al trequartista, non del tutto distante al modulo che Zidane impiega quando schiera, ad esempio, Isco. Non solo moduli e numeri sono entrati nella testa di Zizou, che nel frattempo si è seduto sulla panchina madrilena nel gennaio 2016, subentrando alla gestione disastrosa di Rafa Benitez, tanto voluto dal presidente Pérez quanto criticato da stampa e tifosi. Dicevamo, non solo numeri e moduli ma anche una diversa interpretazione della fase di gioco. Più possesso, tanto caro in Catalunya, più spinta sulle fasce ma soprattutto più solidità difensiva. Indicazioni ottenute grazie all’umiltà che ha da sempre contraddistinto l’ex numero dieci della Francia, il quale è entrato nella polveriera dello spogliatoio Blanco con il consueto passo felpato, riuscendo a ricevere le attenzioni e la fiducia dei calciatori e, in seguito, del presidente.
Taciturno, introverso da calciatore (anche se qualche ‘colpo di testa’ in carriera lo ha sferrato), timido, così come quando confessò alla dirigenza juventina che era tempo di Madrid; deciso ed estroverso da allenatore della società che lo acquistò per la cifra record di 75 milioni di euro. Attento e bravo ad imparare dai tecnici che lo hanno allenato, ha spiazzato, come era solito fare con le sue finte, tutti gli addetti ai lavori, mostrando abilità in panchina che pochi,o forse nessuno, gli addebitavano.
Comunicare con i calciatori è questo uno dei segreti di Zidane che ha forse il merito di aver convinto Cristiano Ronaldo (colui che gli ha strappato, e non poteva essere altrimenti, dopo 8 anni il record di calciatore più pagato della storia) a restare, giurandogli che il Real aveva ancora bisogno di lui. Poi c’è il fattore “C”: Carvajal e Casemiro. Il primo è cresciuto tantissimo, già titolare con Ancelotti, autentico stantuffo dell’out di destra, offrendo ausilio perenne in fase offensiva e sbagliando quasi mai i tempi in quella difensiva; il brasiliano, invece, è il Pirlo ancelottiano, ogni pallone passa dai suoi piedi (non angelici come quelli del bresciano, spieghiamoci) e non disdegna in fase di interdizione, trovando anche la via del gol nella passata stagione contro Napoli e Juventus in Champions. La revolución passa, quindi, per il centrocampo che annovera, oltre al già citato Casemiro, la duttilità di Kroos e l’immensa tecnica di Modric, formando il trio in mezzo al campo più completo al mondo. Possesso non fine a se stesso, dunque, ma pronto a verticalizzare per Benzema, elemento essenziale nello scacchiere di Zidane, o a scaricare sui fenomeni Ronaldo e Isco (più di Bale). A tal proposito sono state determinanti le scelte di Zizou nel preferire il franco-algerino e lo spagnolo rispettivamente all’idolo del Bernabeu Morata (ceduto al Chelsea) e al gallese. Una gestione del gruppo esemplare, forse figlia dell’era galàcticos post Del Bosque (altro maestro per il francese), quando il Real Madrid era un insieme (e che insieme!) di belle figurine che a lungo andare si deteriorò. Grazie a tutti questi elementi uniti alla fase difensiva all’italiana, capitanata dal sempre decisivo Sergio Ramos, e una rosa che può permettersi in panchina gente del calibro di Ceballos, Kovacic e, soprattutto, Marco Asensio, si è riusciti a metter fine alla supremazia tecnica e mentale del Barcellona. Non solo le due Champions League, le due Supercoppe europee, un Campionato del Mondo per club, una Liga e una Supercoppa spagnola, conquistati in un anno e mezzo praticamente, ma anche la soddisfazione di sentir dire dal rivale di sempre, Gearard Piqué: «Mai sentito così inferiore al Real».
La revoluciòn sta funzionando.
Ivan D’Ercole