La necessità di un’identità e il problema dell’indipendentismo passano anche, e soprattutto, per il mondo dello sport. Non ultimi, infatti, gli scenari che hanno preoccupato l’Europa a causa del referendum in Catalogna e i possibili cambiamenti che hanno preoccupato anche il mondo sportivo, a partire dal calcio. Oltre a questo, tuttavia, esiste un intero altro globo che, parallelamente agli organi internazionali che governano lo sport del calcio, gioca un complesso gruppo di competizioni non o semi riconosciute.

Va sotto il nome di ‘calcio indipendente’, o di Non-Fifa Football (in inglese). Versione anglosassone paradossalmente un po’ drastica, che però apre gli occhi su un misto di realtà che portano a riflettere sullo stato delle cose nel mondo. Un vecchio credo dice che le passioni uniscono, e che quindi lo sport a ogni livello crei spirito di coesione. Lo sport è passione, è mettersi in gioco su palcoscenici di seconda linea al servizio di paesi non riconosciuti e/o minoranze sa tanto di genuino, in effetti.

Al giorno d’oggi di sport si vive, e in funzione di un mondiale di calcio o di un’olimpiade si potrebbe quasi tenere il conto degli anni o dei ricordi. Al mondo sono in tanti tra i paesi in cerca di autonomia, tra federazioni regionali o qualche Stato non riconosciuto/indipendente. E per diverse minoranze ed etnie che professano lotte serrate per l’indipendenza dai governi centrali (o che da essi non dipendono strettamente in termini giuridici) lo sport, e in particolare il calcio, riversa e solidifica le convinzioni di indipendenza.

Tra le Nazionali citate, che con molta poca probabilità contano di ottenere un riconoscimento totale in futuro, in molte hanno dato vita a delle associazioni a se stanti come il New Federations Board e il Confederation of Indipendent Football Associations (ConIFA). Si tratta di sodalizi temporanei deputati all’organizzazione di tornei tra i loro membri, nell’ambito di un progetto di cooperazione con la FIFA finalizzato all’affiliazione delle singole federazioni statali al massimo organo calcistico mondiale [Wikipedia].

A queste si appoggiano tante entità quasi-statali, forse anche troppe tra quelle che saremmo capaci di immaginare o di apprendere dai mass media. Appare strano e per certi aspetti fuori dal comune pensare che su canali diversi dalle solite competizioni che vediamo in TV corrono i destini e le sorti di popoli interi. Dalla Lapponia al Kurdistan iracheno, passando per l’isola di Jersey che gioca una partita all’anno, o Tuvalu, Micronesia e Palau, che pur da Stati Sovrani non hanno mai partecipato a una competizione FIFA.

Etnie senza Stato, che sperano di poter ottenere gli stessi risultati della Nazionale di calcio della Palestina, inserita nella FIFA e nell’AFC nel ’98. Un esempio particolare, tra l’altro, lo portiamo in casa nostra, in Italia, dove dal 2007 è affiliata al NFB la Selezione di calcio della Padania. In effetti, tra tutti i ‘se’ e i ‘ma’ bisognerebbe quasi chiamarla Nazionale Padana per via del palmares vittorioso che ha conquistato negli ultimi anni (ha vinto per tre anni consecutivi i mondiali VIVA tra il 2008 e il 2010).

Un esempio che probabilmente tra i tanti resta uno dei meno convincenti e forse il più forzato, dati gli scarsi fondamenti ‘ideologici’ della teoria padana. Un popolo trova motivo di orgoglio in una partita vinta, sente di poter dichiarare qualcosa e di alzare la testa. Il palcoscenico del calcio indipendente in qualche modo ospita i frutti di uno stesso male, paesi che condividono il proprio status quo e che fanno del gioco del pallone un collante per i rispettivi tifosi e supporters. Ma a volte quasi sfugge di mano.

Sette anni fa la Nazionale Padana si giocava il terzo titolo mondiale col Kurdistan e la partita fu macchiata da alcuni episodi di arbitraggio (se ne occupò Piazza Pulita). Dirigeva un italiano, i curdi recriminarono.

Nessuno davvero si sarebbe sognato di mettersi a fare storie sulle differenze tra un italiano e un padano. Che lo sport unisca, dipende un po’ dal punto di vista. Che lo sport possa dare dignità a uno spaccato di un paese, sì. Che lo sport diventi un mezzo di propaganda bello e buono per tentare di tagliare a metà un popolo e mettere su la Nazionale del vicoletto di casa propria, sembra di tornare al Medioevo. Altro che calcio indipendente.

Nicola Puca

Fonte immagine in evidenza: huffingtonpost

 

 

 

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