«Cosa vuol dire quando una donna è fuori dalla cucina? Che la catena è troppo lunga.» Questa è una battuta trovata su Internet, ritenuta abbastanza divertente da meritare la pubblicazione su diversi siti di barzellette online.

Perché essa raggiunga il suo scopo (la risata, si presume), l’ascoltatore deve condividere con chi la recita il concetto secondo il quale il posto della donna è, naturalmente, biologicamente, ma anche antropologicamente, la cucina.

Barzellette come questa, sebbene il loro scopo sia solo quello di far ridere e costituiscano decisamente più un riflesso che una causa del sessismo dei giorni nostri, declinano una concezione della donna come “angelo del focolare”, espressione che, per quanto possa far sorridere qualcuno per il suo suono arcaico o quantomeno demodé, continua, dopo tutti questi anni, a mandare un pungente lezzo bigotto e fascista.

Questa immagine della donna incatenata alla cucina e ai propri doveri domestici potrebbe però essere sovvertita grazie alla scienza e alla tecnologia, le stesse che, nella forma di Internet, hanno permesso la diffusione e il rinforzamento delle battute stereotipiche di cui sopra.

Se Internet, da un lato, ha il potere di mettere in circolazione motti di spirito di tale raffinatezza, dall’altro consente di rendere di dominio pubblico i risultati di uno studio che potrebbe farci andare oltre (finalmente) la visione di una donna “casalinga per natura”.

Uno studio dell’Università del Wisconsin, condotto da Corina Knipper, Alissa Mittnik e altri studiosi e studiose, ha svelato che le donne che vissero in Europa tra la fine del Neolitico e l’inizo dell’Età del bronzo erano tutt’altro che sedentarie. Al contrario, pare che fossero proprio gli uomini ad aspettare che le donne venissero a trovarli.

Analizzando l’antico DNA trovato nei cimiteri preistorici della valle del Lech, gli studiosi hanno potuto ricavare preziose informazioni riguardo alla provenienza delle persone a cui tale DNA apparteneva. Ciò che è stato rivelato è che, su 28 donne adulte, 17 non appartenevano al luogo in cui furono seppellite. Per quanto riguarda gli uomini, invece, solo 3 su 27 non risultavano autoctoni.

Le conseguenze di questa scoperta, resa possibile grazie all’analisi degli isotopi di Stronzio 86 e 87, sono molteplici: la prima è che alcune comunità di fine Neolitico erano piuttosto aperte nei confronti di forestieri. La seconda, una conseguenza della prima, è che siano state proprio le migrazioni il punto cruciale del passaggio dall’età della pietra all’età del bronzo. Le innovazioni tecnologiche dell’epoca, dunque, sarebbero state diffuse attraverso il viaggio. Una sorta di “fuga di cervelli” preistorica, con effetti, però, del tutto positivi, almeno visti con la distanza e la serenità che ci consentono i millenni trascorsi.

L’ultima considerazione è che questi “cervelli in fuga” erano per lo più portati in viaggio da corpi di donna. Pensare a una cosa del genere ci impedisce di considerare il sesso femminile come più stanziale rispetto all’uomo. Per quanto sembri scontato, talvolta una scoperta scientifica può aiutare più di mille nobili difese dell’uguaglianza a spezzare catene che, per quanto invisibili, ancora esistono nella società contemporanea e smontare delle idee retrograde e infondate che ancora (e ora più che mai) infestano il nostro modo di pensare e di stare insieme.

Luca Ventura

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