Per quanto la storia della fantascienza possa essere articolata, nobile e avvincente, con il suo tentativo di affermarsi in quanto genere vero e proprio, a metà degli anni ’70 qualunque eventuale traguardo raggiunto venne annullato.

Nel 1977 uscì il primo capitolo di Star Wars, fenomeno di massa che sbriciolò la fantascienza in una trama godibile dal grande pubblico, in personaggi alla mano, spade laser, molti pro e molti contro. Ma questo non è un dibattito di filosofia spicciola sul mercato letterario e cinematografico.

Questo è un elogio alla sollecita e britannica risposta di Douglas Adams a George Lucas.

Inizialmente nato come programma radiofonico, “Guida galattica per autostoppisti” è diventato romanzo nel 1979, e se certamente non si può dire che sia la parodia della space opera rilanciata appena due anni prima, ne è di sicuro lo scimmiottamento ridacchiante.

Nei cinema statunitensi si celebrava la gloria dell’essere umano che dal suo piccolo pianeta del sistema solare scopre il viaggio nell’iperspazio, diventa grande, potente, eccetera eccetera? Bene, dai microfoni della BBC la storia di Adams comincia con la distruzione della Terra e l’umanità al completo, tranne che per due esserini, Arthur e Trillian, insignificanti e un po’ antipatici.

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La “trilogia in cinque parti” (più una sesta), che viene stampata nel giro di trent’anni, parte dall’intento evidente di demolire la ridicola arroganza umana, riducendo tutte le congetture dei luminari del nostro globo terracqueo, tutta la nostra storia scientifica, tutto il nostro sviluppo sociale, a un granello di sabbia disperso nel buio dell’Universo. Tutto spazzato via, per giunta, da un’altra razza piuttosto patetica, a causa di una faccenda burocratica.

Per non parlare della scioltezza disarmante con cui vengono poste le domande fondamentali dell’esistenza, e dell’irriverente risata con cui (non) vengono date le risposte!

Dallo spietato spirito ironico di Adams, Garth Jennings seppe far nascere un film pieno di pupazzoni di plastica e risatine a denti stretti: chi ama questo eccentrico tipo di fantascienza non storce il naso. Se lo gode fino all’ultimo fotogramma (e chiude in cantina l’imparzialità).

Così, nel 2005 Arthur Dent, pantofolaio e stereotipato inglese, acquistò le sembianze di Martin Freeman. All’epoca ancora pressoché sconosciuto fuori dal Regno Unito, il futuro giovane Bilbo Baggins aveva la sua vestaglia frusta, una perenne voglia di tè e l’aria a metà tra lo spaesato e il rassegnato.

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Protagonista non è né lui, né i compagni di viaggio con cui casualmente condivide la navicella spaziale, ma l’Universo: la genialità di Adams e l’abilità di Jennings nel tradurlo in immagine sembrano senza fondo.

Razze di ogni tipo (basterebbe ricordare “l’hooloovoo, una sfumatura super-intelligente del colore azzurro”), leggi non scritte della buona educazione tra specie, religioni apparentemente assurde e per cui tutti hanno il massimo rispetto, pianeti dei più diversi materiali, improbabili nodi nel tessuto spazio-temporale che teoricamente spiegherebbero fenomeni particolarissimi: tutto questo è descritto e documentato nel libro più utile dell’Universo, la Guida galattica per autostoppisti, appunto.

E per affrontare quasi due ore di nonsense e spazio infinito, compreso un finale che mortifica con una stoccata finale la supponenza umana, quel che servirebbe è un leader impettito e impomatato? Be’, il massimo che Freeman/Dent può offrire è piazzarsi stoicamente ad aspettare il suo turno allo sportello di un ufficio alieno con un deciso “Sono inglese. So come si sta in fila”.

Chiara Orefice

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