«Pupazzo», «burattino», «filo teso in mano ad una nuova casta». Le definizioni per il nuovo presidente del Consiglio Giuseppe Conte si sono sprecate nelle settimane successive alla formazione del governo Lega-M5S. Ma il neo-premier ha davvero così poca autonomia di pensiero e azione?
«È stata tua la colpa, allora adesso che vuoi?
Volevi diventare come uno di noi
e come rimpiangi quei giorni che eri
un burattino ma senza fili
e invece adesso i fili ce l’hai»Edoardo Bennato, profeta del primo governo Conte
Giuseppe Conte è stato chiamato per rispondere a un’esigenza di mediazione tra due forze di governo che non volevano che a Palazzo Chigi sedesse un esponente politico, si sa. Ma questa mediazione si può intendere in due modi ben distinti: si può essere mediatori, si può essere invece il mero prodotto di una mediazione altrui. Ecco, Conte si è presentato – o meglio, e questo è già indicativo – è stato presentato da chi lo ha conosciuto in ambito accademico e professionale come fulgido esempio del primo caso, forza attiva nel cosiddetto governo del cambiamento in grado di tenere a bada da un lato le scorribande dell’arringatore Salvini, dall’altro le tendenze del Movimento troppo vicine al grillismo contra omnes della prima ora.
Con questa narrazione, sfortunatamente, non sembrano concordare in modo particolare gli alti quadri di Lega e Movimento, che si sono scordati della presunta importanza del ruolo del primo ministro e non hanno esitato a scavalcarlo sistematicamente su tv e giornali, relegandolo nell’angolino peggiore per un politico del 2018: quello degli esclusi mediatici. A memoria, Conte è salito alla ribalta in tre occasioni, delle quali ben due dettate da suoi errori: il lapsus sul «congiunto» del presidente Mattarella e la questione del curriculum falso.
Due scivoloni evitabili, ma è il terzo caso che sembra il più interessante per farsi strada con un pizzico di ironia nella psiche di Giuseppe Conte. Incalzato dai giornalisti in Parlamento dopo il discorso di insediamento del nuovo governo, il neopresidente – al quale viene chiesto cosa pensi di Renzi, che l’aveva definito «collega» in quanto premier non eletto dal popolo – risponde con nonchalance: «È professore lui?». E giù risate, applausi scroscianti dei militanti gialloverdi sul web e pioggia di meme su Conte che blasta Renzi. Meme che nascono già morti, privi di senso, perché nella risposta a tono di Conte non c’è traccia di quel carisma di alcuni suoi predecessori, di quell’arroganza genuina di un Renzi qualunque, per l’appunto.
Quella di Conte è la richiesta disperata di attenzioni di un comprimario che è stato messo a recitare il ruolo da protagonista in un film dove tutti gli intrighi più interessanti sono tra i personaggi secondari, che per di più sono pure impersonati da attori di prima fascia. Insomma, è naturale che cerchi di prendersi la scena per sé.
Or incomincian le dolenti note. Ecco, immaginare un attore di serie B invischiato in una situazione simile, a dover reggere il confronto con Kevin Bacon e Sean Penn che gli fanno da spalla può essere divertente, ma la metafora regge fino a un certo punto. Prima di tutto perché non sapremmo istituire con grande facilità un gioco di corrispondenze tra Salvini e Di Maio e i due attori sopracitati, ma soprattutto perché nelle scorse settimane i giochi di potere e i retroscena che piacciono tanto alla stampa sono stati momentaneamente interrotti da un carico da undici di realtà, di attualità, di – perdonate l’espressione spesso abusata – storie di vita vera: il caso Aquarius.
Dicevamo di tre casi principali nei quali il nome di Conte è comparso sui giornali. Casi di scarso peso, certo, rispetto a quelli nei quali sarebbe stato più opportuno attendersi un virgolettato del presidente del Consiglio, come appunto la chiusura dei porti italiani ai 629 migranti della nave Aquarius. E invece, silenzio. Un ringraziamento alla decisione del governo spagnolo di accoglierli, un ringraziamento all’operato del duo Salvini-Toninelli, nulla di più. L’impressione generale che ci troviamo all’interno di un governo Salvini sotto mentite spoglie non viene in alcun modo smentita da Conte. Eppure, lo difende qualcuno, come potrebbe? Non può mica andare contro le decisioni di un suo ministro. O forse sì?
Giuseppe Conte non è il primo ministro di un governo a trazione leghista, ma di un governo espressione di due partiti. E dovrebbe ricordarselo, perché le posizioni in materia di immigrazione di Lega e Movimento Cinque Stelle non coincidono. Nessuna illusione, quella base movimentista grillina più a sinistra della vecchia sinistra non costituisce più la parte predominante dell’elettorato del Movimento, ma non è neanche inesistente. Il divario più profondo tra elettori Lega e Cinque Stelle si misura, infatti, proprio sul tema della gestione della crisi migratoria.
Meglio è andata con il secondo caso mediatico targato Salvini: il censimento dei Rom. Qui, per la prima volta, Conte è stato esplicito: «Non ci sarà nessuna schedatura dei Rom che sarebbe tra le altre cose incostituzionale, l’obiettivo è la lotta all’illegalità». Per la prima volta Conte ha piantato i piedi, ma lo ha fatto su un terreno politico piuttosto sdrucciolevole, che vede la Lega ormai saldamente primo partito secondo i sondaggi e un Movimento sempre più in difficoltà.
E allora le voci di Palazzo non si fanno attendere: che Salvini torni al voto per capitalizzare i consensi? Staremo a vedere, con il costante timore che accanto a noi, semplice spettatore degli eventi, ci sia anche chi avrebbe il dovere di governarli.
Davide Saracino
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