Sembra quasi la solita storia dei soliti referendum: settimane di campagna elettorale infuocata, quorum fallito, dopodiché il dibattito politico ritorna a occuparsi di tutt’altro e il risultato delle consultazioni è beatamente ignorato da chi dovrebbe legiferare.

«Una forma pratica di democrazia, ma non tanto pratica», sintetizzava Gaber.

Quindi ha ragione Matteo Renzi, questo voto è stato inutile e si sono sprecati 300 milioni per nulla, capriccio «di pochi consigli regionali e di qualche presidente di regione», appannaggio di qualche romantico idealista con troppa voglia di votare e screditare chi cambia davvero il Paese? Si è trattato di una strumentalizzazione di pochi comitatini che «per settimane si sono chiusi nei talk show» e «hanno monopolizzato i social network»?

Si sono salvati 11mila posti di lavoro, non votando domenica 17 aprile? (Dati del governo e parole del Presidente del Consiglio).

Abbiamo rischiato uno sconvolgimento sociale e nemmeno lo sapevamo, evidentemente.
No, davvero, se le cose stanno così non andiamoci più a votare, e ammettiamolo: il popolo non deve decidere su questioni tecniche, che è un po’ come dire che il popolo non deve decidere proprio nulla. È legittimo. Che ne sa il popolo, ignorante e arrogante com’è nell’avanzare pretese. La politica energetica è roba di geologi, di ingegneri, di statistiche e di comparazione di dati: bisogna considerare l’import, l’export, gli andamenti del mercato, le previsioni sulle variazioni dei consumi, gli aspetti geopolitici legati all’andamento del prezzo del petrolio. Ma che ne sa il popolo, ma che ne sanno i No Triv.
Che birboni, questi ambientalisti.

Ignoranti. È quanto grossomodo dicevano i ricchi notabili di questo grande Paese, quando nel 1918 si estese per la prima volta il voto a tutti i cittadini maschi di età superiore ai 21 anni. Ma come, proprio tutti tutti, senza requisiti di una scolarizzazione minima o di censo? Ma che ne sanno i contadini, ma che ne sanno gli operai di come va il mondo. 
Ed è quanto si diceva, almeno fino al 1945, a proposito del suffragio femminile, poi approvato «in fretta e furia, alla chetichella» come ultimo punto all’ordine del giorno in un Italia ancora divisa,  accolto «con scarne e neutre formule» o addirittura con ostilità dai giornali. Ma che ne sanno le donne della vita pubblica dello Stato, che ne sanno di questioni tecniche e complesse, di economia, di relazioni con gli altri Stati.

Allora come possono gli italiani decidere su una questione oggettivamente difficile, “da studiare”, come è avvenuto per il referendum del 17 aprile?

Ai 13 milioni e 334mila italiani che al referendum hanno votato “sì” sarà venuta l’orticaria, ascoltando il discorso di Renzi ad urne appena chiuse, domenica sera: da un lato c’era la superbia del vincitore, dall’altro la necessità di creare consenso del politico; da una parte il sottotesto era lo sfottò verso gli elettori – portato avanti dai renziani sui social ad urne ancora aperte, con inviti ad andare al mare conclusi nel poco dignitoso “ciaone” del deputato Pd Carbone – dall’altra il calcolo politico di non poter rendersi nemici 13 milioni di elettori in diretta nazionale, in vista delle amministrative di giugno.

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Così, ad esempio, da una parte il megafono dice che il Governo non si ritiene vincitore di nessuna battaglia (e, nel dirlo, implicitamente e psicologicamente al contrario lo afferma!), dall’altra la manovalanza – quelli che sono troppo poco conosciuti per destare scandalo, ma abbastanza per colpire i nemici – continua gli affondi verso i pretesi eroi di questa battaglia, i pochi politici che si sono messi a difendere (e allo stesso tempo hanno contribuito a legittimare) le ragioni del sì: come si permette, Michele Emiliano, presidente della regione Puglia e capofila mediaticamente più esposto tra i dissidenti, ad andare contro il suo stesso partito e contro il suo segretario?

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Si, in parte è vero: c’è una conta interna al Pd che corrisponde a una battaglia per riprendersi la leadership del partito occupato dai renziani. Forse Emiliano si candiderà come futuro segretario nazionale contro Renzi, forse no. Come avviene ogni volta, il referendum è stato strumentalizzato, enfatizzato o sminuito a seconda dei casi, e per esigenze di tempo si è proteso all’eccessiva semplificazione.
Ma davvero siamo arrivati a questo? Davvero i renziani che spuntano ovunque vogliono leggere il voto di 13 milioni di persone come una conta interna? Davvero qualcuno pensa che sono stati gli ambientalisti ad egemonizzare i media nazionali? Siamo tanto ciechi?

Di antirenzismo, di lavoro e di altre sciocchezze.

Se non proprio a livello intuitivo, ad analizzare qualche sondaggio fatto in questi giorni le cose sembrano stare un po’ diversamente dalla lettura che se ne vuole fare, prettamente antirenziana.

Secondo i dati di tre diversi sondaggi
(Ipsos per il Corriere; Demos per Repubblica e Swg per Il Messaggero) a mobilitarsi sono stati maggiormente gli elettori del M5S (41-49%), persone alla sinistra del Pd (Sel, Sinistra Italiana, altri con il 36-44%), ma anche leghisti, elettori di Forza Italia e di destra (percentuali intorno al 30%). Anche se in minoranza, e nonostante le indicazioni del partito, sono andati a votare comunque il 23-30% degli elettori del Partito Democratico. Inoltre il referendum ha richiamato alle urne il 30% degli indecisi e il 16% di elettori che normalmente non votano alle politiche.

Interessante notare che, al contrario delle accuse di aver avuto troppa rilevanza mediatica, è stato più propenso al voto chi ha dichiarato di essersi informato sul web piuttosto che in televisione. In base alle fasce d’età, poi, l’elettore medio è più giovane e con una migliore istruzione: hanno votato il 41% di studenti, contro il 37% di adulti tra 55 e 64 anni e appena il 26% di over 64.

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Dati Swg per Il Messaggero.

Il quadro che ne deriva è quello di un voto non direttamente riconducibile all’antirenzismo militante, come ricorda Ilvo Diamanti:

«…tra coloro che, nei giorni scorsi, si erano detti certi di recarsi alle urne, il grado di “fiducia” nei confronti del governo risulta intorno al 30%. Dunque, meno, rispetto alla media degli italiani (39%). Ma non troppo. Per questo lascia perplessi la traduzione direttamente politica e personale che viene data al risultato del referendum. Non da una parte sola, peraltro. Perché Renzi, e in modo ancor più esplicito i renziani, hanno rovesciato, a proprio favore, questa impostazione. Con l’effetto, francamente paradossale, di trasformare l’astensione in consenso. Traducendo il dato della non-partecipazione in una misura del sostegno al governo e al premier.»

Una vera e propria «deriva del dibattito politico» che «riassume la nostra vita politica in un lungo referendum pro o contro Renzi», continua il sociologo, e rischia sempre più di trasformare il nostro sistema parlamentare in un «premierato preterintenzionale», in una continua spaccatura della società in parti contrapposte, in cui i nemici sono gufi da umiliare, gli elettori debbono vergognarsi di aver votato (o al più ringraziare per le gentili concessioni) e conviene far parte del carrozzone per goderne i vantaggi.
Il premier lo sa bene, è per questo che in una lunga parte del dibattito post referendum ha tenuto sommessamente a ricucire i rapporti e ad abbassare i toni, rimettendosi a parlare di rinnovabili, lui che (come si è più volte denunciato – nello specifico al punto 4) ha avuto pesanti responsabilità nel ridurre gli incentivi al fotovoltaico e all’eolico, secondo quanto riportato non solo da Greenpeace, ma anche da una fonte “istituzionale” come l’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.

Anche nel merito di altre questioni il Governo racconta bufale. Gli 11mila posti di lavoro salvati sono fantasia pura: i numeri dati dai sindacati non vanno oltre i 5mila lavoratori totali, indotto compreso, e per altro non si tiene conto del semplice fatto che le stesse conseguenze pratiche del referendum sarebbero state quasi effimere, visto che gli impianti sarebbero andati a scadenza dopo anni. Ergo all’indomani della vittoria del sì non ci sarebbe stato nemmeno un licenziamento e si sarebbero avuti anni di tempo per riconvertire gli eventuali (e pochi) posti effettivamente persi.

Riguardo i media, Renzi nel suo discorso ha dichiarato:

«Per settimane autorevoli ospiti si sono chiusi nei talk show, hanno monopolizzato il social network immaginando chi sa quali sconvolgimenti. Alla fine la classe dirigente di questo paese si mostra come autoreferenziale. Vivono su twitter, nei salotti televisivi ma l’Italia è molto più grande dei talk show che riferiscono il pensiero degli addetti ai lavori e non si accorgono che là fuori c’è un paese che è capace di valutare se un voto ha senso […]»

Appena un paio di dati: SkyTg24 a qualche giorno del voto ha mandato in onda un fascione sbagliato in cui si dava notizia che il voto sarebbe avvenuto solo in 9 regioni, e non in tutta Italia. La Rai ha puntualmente ignorato il voto, con il dibattito sul tema relegato a terza-quarta notizia nei telegiornali. In più molti giornalisti e commentatori, in tv e sulla carta stampata, hanno cercato in tutti i modi di minimizzare la portata del voto: emblematico il caso di Agorà, la trasmissione di Rai Tre dove il conduttore Gerardo Greco interviene nella discussione, prima dicendo ancora che si vota solo in alcune regioni, poi correggendosi ma ripetendo che in Val d’Aosta il referendum non interessa. E proprio domenica 17 aprile, ad urne aperte, i lettori di Repubblica potevano leggere nell’editoriale di Eugenio Scalfari che il voto «non riguarda chi vive in terre lontane dal mare».

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Il fascione sbagliato andato in onda su SkyTg24, che ha scatenato le polemiche della rete.

Come ha fatto notare Marco Travaglio, è un po’ «come dire che, se un domani qualcuno volesse abbattere il Duomo di Milano, tutti i non milanesi se ne dovrebbero fregare».


Restano due domande.

L’eredità politica che lascia questo referendum, quindi, va ben oltre il fallimento denunciato dagli astensionisti.

In primis vi è un problema apparentemente formale, quello del tono politico e delle strumentalizzazioni di bassa lega, che di certo alterano pericolosamente il normale funzionamento di un sistema democratico, divenendo al contrario un problema di sostanza politica: il referendum abrogativo, al di là della difficoltà della questione, funziona quando i cittadini hanno modo e tempo di informarsi, di decidere in autonomia di pensiero e di votare. Personalizzare il dibattito sul voto, tramutandolo in un plebiscito pro o contro Renzi, evoca forme elitarie di partecipazione ben lontane dall’essere compiuta democrazia. Né il PD, né un governo permeabile alle lobby, né un’informazione asservita aiutano questo processo, ancor più in vista di un altro referendum fondamentale come quello di ottobre sulla Costituzione. E chissà che alle amministrative di giugno non siano gli elettori stessi a dire “ciaone” al PD.

In più resta una domanda di merito: il 17 aprile 13 milioni di italiani hanno chiesto una politica energetica diversa, con le rinnovabili che devono essere protagoniste e non meri spot elettorali per ricercare consenso. Siamo a un punto di non ritorno a livello globale e, nell’accordo siglato lo scorso dicembre a Parigi insieme a 195 paesi, l’Italia si è impegnata ad abbandonare nei prossimi 30 anni i combustibili fossili, compiendo una difficile transizione energetica che cambierà radicalmente le vite di tutti. Trenta anni non sono molti e gli italiani non sono mai stati così sensibili al tema come ora. La classe politica ora deve dare risposte.

Il 19 aprile, durante la discussione al Senato sulla mozione di sfiducia al governo (poi respinta), Renzi ha citato nientemeno che il DC Mino Martinazzoli: «L’Italia è altrove, la politica è altrove: quando avrete finito con le vostre sceneggiate noi vi aspetteremo là».

Ha ragione, ma non nel senso che intende lui. La politica per ora è di sicuro su tutt’altro pianeta e a pochi giorni dal referendum il dibattito politico è tornato su tutt’altri discorsi: il referendum ha dimostrato che c’è una gran voglia di partecipazione democratica alla vita politica e che milioni di italiani sono molto più ambientalisti di quanto li si dipinga. L’Italia che vuole rinnovarsi forse vi sta già aspettando.

Antonio Acernese

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