Famigerata è la promessa di Matteo Renzi sul taglio delle tasse e, come sempre, l’argomento è oggetto d’analisi dell’attenta lente d’ingrandimento del popolo italiano, ma forse potrebbe essere sfuggito qualche particolare che è opportuno sottolineare.
Partiamo dal principio: il Premier a luglio scorso annuncia un taglio delle tasse per un totale di 45/50 Mld di euro, una promessa con gli italiani che, nel suo intento, mira ad una spinta dei fattori di crescita, che sembrano essere impantanati dai vincoli UE nonostante una lieve ripresa (clicca qui per saperne di più).
I punti focali sono su operazioni a base annua rispettivamente su: Tasi e Imu; costi del lavoro, con Irap e Ires; revisione degli scaglioni Irpef. Le coperture finanziarie ci sono, stando a quanto dicono voci governative, ma la domanda che i contribuenti italiani si pongono, come hanno ripetuto giornali e talk show, “i conti sono stati fatti senza l’oste”?
A minori entrate, con la sforbiciata alle tasse, dovrebbero corrispondere meno spese per mantenere un equilibrio sul deficit. Dovrebbero, anzi devono, perché l’oste in questo caso è la severissima UE. Il problema non risiede solo nella severità europea, ma nel piede infilato nella tagliola inserendo il pareggio di bilancio nella Costituzione ed il connesso obbligo a rispettare le clausole di salvaguardia (es: aumento Iva al 25,5% in caso sforassimo il pareggio di bilancio). Il Premier parla di una spending review da circa 27 Mld, ma finora, secondo non pochi economisti, sono certi solo i tagli lineari ed il “raccolto” ad oggi ammonta a 4,5 miliardi in tutto.
Renzi ha promesso, inoltre, che aggiungerà altri 12 miliardi per arrivare a quota 32 nel 2016: tutto bene se non fosse che gli stessi diretti interessati, in camera caritatis, confessano che difficilmente si sforerà la soglia dei 15 miliardi e le coperture necessarie per i tagli alle tasse non ci sarebbero. E allora che succederà? Altri aumenti di tasse? Impossibile: Renzi rischierebbe di essere ricordato come un Mario Monti più giovane. L’aspettativa è di ottenere una proroga di 2 anni sul pareggio di bilancio, specialmente dopo l’appoggio alla Germania durante la questione greca ed evitare le procedure di infrazione del deficit, dovendo solo rispettare l’obiettivo del rapporto deficit/pil al 3% che oggettivamente non sembra troppo difficoltoso.
Il nostro deficit programmatico, però, è fissato su soglie molto importanti e risultano dal Def all’1,8% nel 2016 e allo 0,8% nel 2017. Obiettivi che difficilmente saranno raggiunti e che farebbero scattare le clausole di salvaguardia con contestuale aumento dell’Iva e delle accise, le quali andrebbero a sterilizzare la sforbiciata alle tasse.
Renzi ed i tecnici del Ministero dell’Economia avranno pensato che, mantenendo il deficit costante al 2,9%, ci sarebbe spazio attivo di manovra per 45-48 miliardi da spendere in due anni: una quarantina e più azzereranno l’aumento di Iva ed accise e la maggior spesa andrebbe in pensioni o l’annuale rifinanziamento degli ammortizzatori sociali, mentre il resto verrebbe utilizzato per i contratti degli statali.
I più maliziosi pensano che con una mano si taglierà attraverso la spending review e con l’altra si ridurranno le detrazioni grazie alle deleghe fiscali. In questo modo si rispetterebbe ciò che è scritto in quasi tutti i manuali di politica economica: in vista delle elezioni i politici spesso fanno manovre per accontentare la più ampia fetta di elettori possibili, anche a scapito di risultati tangibili nel medio periodo. Potrebbe essere il caso di Renzi, il quale accontenterebbe Unione Europea ed elettori attraverso queste mosse, oppure no.
Il Presidente del consiglio, secondo gli economisti più affermati, sembra dare per scontato che l’Europa ci consenta di sforare il deficit in cambio di una politica di rilancio economico, mentre da Bruxelles il commissario all’Economia, il francese Pierre Moscovici, mette i paletti dichiarando che l’Italia non riceverà un trattamento di favore come nello scorso anno, ma a palazzo Chigi aleggia la convinzione che proprio la Francia sia il carro a cui attaccarsi. Il deficit francese (4%), infatti, è ben peggiore del nostro, quindi anche i cugini d’Oltralpe chiederanno di sforare e, noi con loro, otterremmo il lasciapassare. I francesi, però, non hanno attuato particolari manovre di bilancio e potrebbero non chiedere aiuti all’Europa.
Tra qualche mese Parigi potrebbe lasciarci senza carro a cui aggrapparci, l’Italia si ritroverebbe da sola e l’ex sindaco di Firenze potrebbe sperimentare la stessa pressione che l’Europa ha messo a Tsipras.
Vincenzo Palma