Quando si sceglie di realizzare una pellicola incentrata su un personaggio che ha cambiato la storia e il modo di vivere delle persone, non è mai facile scegliere il punto di vista o la chiave con cui raccontarlo al meglio. Soprattutto quando bisogna affrontare un arco narrativo ampio, con salti temporali notevoli, mantenendo però alta l’attenzione con un racconto coinvolgente e preciso allo stesso tempo. Il regista di The Millionaire, Danny Boyle, ci è riuscito perfettamente con il suo nuovo film Steve Jobs, uscito nelle nostre sale il 21 gennaio, che vede protagonista uno straordinario Michael Fassbender – che andrà a scontrarsi con l’ormai favorito Leonardo DiCaprio agli Oscar – nei panni del genio visionario fondatore della Apple e inventore dell’IPhone.
In 120 minuti, il regista racconta Steve Jobs attraverso tre momenti chiave della sua vita e carriera, che passano per il dietro le quinte, animato e affollato, di tre presentazioni dell’informatico. Nel 1984 è la volta del Macintosh, nel 1988 del NeXT Computer e nel 1998 dell’IMac. La presentazione vera e propria ci viene sempre elusa, ciò che va a indagare il film è proprio il backstage, la preparazione, con i lunghi litigi tra Jobs e il co-fondatore della Apple, Steve Wozniak – interpretato dal convincente Seth Rogen -, il programmatore Andy Hertzfeld e l’amministratore delegato della Apple, John Scully, ma anche i consigli di Joanna Hoffman – una sempre precisa Kate Winslet – e gli scontri/incontri con Chrisann Brennan, madre della figlia di Jobs, Lisa, che fino alla fine insisterà a non riconoscere come sua.
Attraverso questi soli tre momenti, intervallati da alcuni efficaci e ben integrati flashback e dai veloci notiziari e titoli che ci permettono di non perdere la bussola del racconto, Boyle dà vita ad un ritratto preciso e curato della figura complessa, enigmatica ma fortemente ambiziosa del genio informatico che ha rivoluzionato il mondo della tecnologia, il modo di ascoltare la musica e di usare Internet. La riuscita ed efficacia del racconto deve molto al montaggio perfetto e alla sceneggiatura brillante, intelligente e studiata di Aaron Sorkin, premiato ai Golden Globe per Miglior Sceneggiatura, ma inspiegabilmente snobbato dall’Academy. La parola è uno degli elementi più importati del film, tutto giocato sulle veloci e argute battute dei personaggi, che ritornano e ripercorrono il passato, in quei brevi minuti che precedono il lancio di ogni presentazione di Jobs. Tutto avviene prima, in quel lasso di tempo, sempre scandito e cronometrato dalla Hoffman, che ogni volta rincorre Jobs per i corridoi del backstage. Perché ciò che conta non è la figura di Steve Jobs che si mostra davanti alla sua platea e al suo pubblico, che lo reclama entusiasta, battendo mani e piedi, ma scavare e scoprire cosa e soprattutto chi c’è dietro un personaggio che ha cambiato il mondo, dietro una persona così incredibilmente inflessibile, spietata ed egoista con i suoi collaboratori, eppure così vigile e attento nei confronti della figlia, della quale è così ostinato a non riconoscerne la paternità.
Steve Jobs cerca infatti di approfondire questi due lati e aspetti della vita dell’inventore così ossessionato dal controllo, che qui ha il volto di Michael Fassbender, tra i più grandi attori della sua generazione, che regala ancora una volta una performance impeccabile, e intorno al quale ruota l’intera pellicola. Ma non è da meno il resto del cast. Anche Kate Winslet dà un’altra ottima prova attoriale, nonostante anche per lei le chance di vincere l’Oscar siano davvero poche contro Alicia Vikander e Rooney Mara, e non sono da meno neanche Seth Rogen e Jeff Daniel.
Il racconto si ferma con il 1998, chiudendo il cerchio narrativo del film con uno dei più importanti successi di Steve Jobs, che in realtà di successi continuerà ad averne fino alla prematura morte nel 2011. E se il film Jobs di soli tre anni fa, nel quale Ashton Kutcher dà vita all’informatico in una pellicola considerata troppo banale e superficiale; Steve Jobs di Danny Boyle non delude le aspettative, con un biopic originale che racconta, e bene, un uomo tanto complicato quanto eccezionale, che voleva lasciare un segno nella storia e ci è riuscito.
Manuela Stacca