Lo scorso venerdì 18 marzo, un blocco stradale nel distretto di Saptari, Nepal, organizzato da alcuni cittadini di etnia Madhesi, ha paralizzato quasi completamente la circolazione su una delle poche vie di comunicazione diretta tra il Paese himalaiano e l’India, compromettendo i rifornimenti di generi di prima necessità in direzione dello stesso Nepal.
Gli attivisti protestavano per ottenere dal governo nepalese un’ulteriore revisione della Costituzione approvata in settembre e già modificata in loro favore a gennaio, correggendone alcune previsioni che i Madhesi ritengono altamente penalizzanti.
Così riportata, sembra una delle tante storie di tensioni etniche che infiammano Paesi lontani è apparentemente perlopiù marginali sulla scena mondiale; invece, approfondendo l’analisi, sarà chiaro che si tratta di una complessa vicenda in cui si intrecciano la tragedia di un devastante terremoto, il gioco della geopolitica e tanti soldi.
25 aprile 2015: un sisma di magnitudo 7.8 della scala Richter sconvolge il Nepal, causando la morte di almeno 8.000 persone e una distruzione pressoché totale delle infrastrutture nepalesi. L’intervento umanitario della comunità internazionale sembra immediato, coinvolgendo diversi protagonisti, tra i quali subito spiccano l’India e la Cina. Entrambe confinanti con il Nepal, le due nuove potenze mondiali intuiscono che la ricostruzione di questo piccolo Paese alle pendici dell’Himalaya può diventare un ottimo affare geopolitico: chi arriverà primo nella corsa agli aiuti, si aggiudicherà una bella fetta di consenso nell’area del subcontinente indiano, dove la supremazia di Nuova Delhi non è poi così scontata, né immune dalle ingerenze di Pechino.
Cominciano così ad essere inviate squadre di soccorritori d’ogni genere, coadiuvate dai rispettivi militari: tuttavia, se la reazione dei nepalesi nei confronti del “contingente” cinese è sostanzialmente buona, quella nei confronti degli indiani sembra ostile. Le TV indiane vengono indicate come ospiti non graditi, sostenendo che la copertura informativa sul terremoto sia parziale e non veritiera, mentre gli stessi soccorritori vengono accusati di occuparsi solo di evacuare gli indiani presenti in Nepal; infine, la presenza dell’esercito è avvertita come quasi come quella di una forza di occupazione. Ragioni storiche e politiche incentivano questa cattiva disposizione dei nepalesi nei confronti degli indiani: l’India è stata sempre abituata a considerare il suo piccolo e povero confinante a maggioranza hindu come il giardino di casa, inondandolo di propri prodotti. A conferma della stretta relazione socioeconomica tra i due vicini, basti pensare che vige da tempo tra questi un regime di libera circolazione delle persone, dato che molti nepalesi lavorano come pendolari nella stessa India. Non che di questa supremazia Nuova Delhi abbia fatto sempre buon uso: l’elefante ha spesso cercato di fare la voce grossa col topolino, come nel 1989, quando il governo indiano stabilì una sorta di embargo in risposta ad un avvicinamento commerciale del Nepal alla Cina. Ecco, la Cina: il Nepal in questi anni ha sempre guardato a Pechino come ad un nuovo potenziale partner, per allentare la morsa dell’India. Così, la Cina è diventata, dal 2014, il primo investitore in Nepal e autore di molti dei piani infrastrutturali per l’ammodernamento del Paese.
Nel 2015 il terremoto ha messo alla prova questo fragile equilibrio: l’India ha per prima dimostrato interesse per la ricostruzione, stanziando in giugno la somma di 1 miliardo di dollari di aiuti, di cui un primo quarto garantiti e il resto come prestito a tasso agevolato. Un ulteriore miliardo di dollari sarebbe arrivato nei successivi 5 anni. Una somma monstre, insomma, senza confronti con altri aiuti pervenuti in Nepal e in chiara prospettiva anti cinese. Al tentativo indiano di infliggere un colpo decisivo alla popolarità di Pechino nella regione hanno dato man forte gli Stati Uniti, che nello stesso periodo hanno stanziato 6 milioni di dollari in favore dei tibetani di Nepal e della stessa India, proprio per destabilizzare ulteriormente il Tibet cinese e spingerlo a guardare ad una nuova alleanza a sud.
Qualcosa è però subito andato storto: l’India ha rimproverato al Nepal ritardi e incertezze nella programmazione della ricostruzione, nonostante il Ministro delle Finanze nepalese avesse annunciato la prossima costituzione, tra l’altro, di una banca per lo sviluppo delle infrastrutture sotto l’egida della stessa India. In realtà, la ragione della reticenza indiana ad aprire i cordoni della borsa era da ricercarsi altrove.
Nel settembre scorso il Nepal aveva infatti approvato la nuova Carta Costituzionale, che aveva trasformato il Paese in una Repubblica laica a carattere federale, suddivisa in 7 Stati. Immancabilmente, la nuova forma di Stato aveva scontentato una fetta della popolazione, e non una qualsiasi: le etnie Madhesi e Tharu, che rappresentano circa il 40% dei nepalesi e vivono in una zona pianeggiante al confine con l’India, dove ci sono le grandi (e uniche) vie di comunicazione a sud del Paese, avevano lamentato difetti nel sistema rappresentativo ai loro danni e invocato la protezione dell’India, con i cui popoli conservano vincoli di sangue secolari. L’India aveva ovviamente cominciato ad esercitare pressioni politiche su Katmandu, imponendole la revisione della Costituzione: la prova di forza veniva giustificata asserendo che le tensioni in Nepal avrebbero reso instabili anche le zone di confine in territorio indiano, già particolarmente turbolente. Dal canto suo, Katmandu aveva accusato il vicino di ingerenze indebite nella sua politica interna, e sollecitando l’interesse della Cina alla questione, che aveva intanto accolto con favore la nuova Costituzione.
A questo punto, circa cinque mesi fa cominciò una protesta oggettivamente con pochi precedenti: numerosi manifestanti di etnia Madhesi si posero di traverso sul confine con l’India, ad impedire a qualsiasi convoglio commerciale di entrare ed uscire dal Nepal, determinando un blocco che mise letteralmente in ginocchio un Paese devastato dal terremoto. Sotto il grave peso di questa iniziativa, aggravata dal sospetto (sempre smentito con sdegno da Nuova Delhi) che l’India favorisse questa sorta di embargo ufficioso e dagli scontri interni che, ad oggi, hanno fatto almeno 55 morti, il Parlamento del Nepal lo scorso gennaio si è deciso a modificare la Costituzione a maggioranza di due terzi, concedendo maggiore rappresentatività alle minoranze e impostando un nuovo sistema rappresentativo. Nonostante i Madhesi non si fossero detti soddisfatti della soluzione, i leader della protesta disposero comunque la rimozione del blocco, in modo da consentire l’importazione dall’India di carburante e medicine.
Lo scorso 19 febbraio, il Primo Ministro nepalese Oli ha infine visitato Nuova Delhi: i media indiani hanno festeggiato la fine delle incomprensioni tra i due Paesi e annunciato la ripresa delle trattative per l’erogazione degli aiuti finanziari, ancora bloccata a causa della vicenda dei Madhesi. Ha ripreso quota l’ipotesi dell’indispensabile fondazione della banca per le infrastrutture e sono stati disposti i preparativi per il pagamento del primo quarto dell’ormai chimerico miliardo di dollari da parte dell’India. Tutto risolto?
Macché: il meccanismo si è inceppato nuovamente pochi giorni fa. Il bilancio preventivo indiano per il biennio 2016/2017 viene approvato prevedendo una decurtazione degli aiuti al Nepal del 40%, giustificata dal fatto che il governo Oli non sarebbe stato in grado di spendere quanto finora ottenuto dai Paesi sovventori.
Quasi contemporaneamente, poi, come si accennava all’inizio, i blocchi stradali alla frontiera sono ripresi, mettendo a rischio nuovamente i rifornimenti di generi fondamentali in Nepal.
In conclusione, due considerazioni emergono a partire da questa quasi sconosciuta vicenda alle pendici dell’Himalaya. In primo luogo, un Paese è riuscito de facto ad imporre ad un altro una modifica costituzionale, allo scopo di favorire la rivendicazione (legittima o meno che sia, non è in questo ambito rilevante) di un gruppo etnico affine, ma di nazionalità straniera, creando un pericoloso precedente: come sia possibile qualcosa di simile, rimane un mistero della geopolitica e del diritto internazionale. In secondo luogo, è lampante che gli aiuti umanitari hanno costituito indirettamente un’arma politica per l’esercizio di questo neanche troppo velato ricatto: nonostante si tratti forse di un fatto ancora più eclatante del precedente, sembra che sia stato quantomeno accettabile o trascurabile, agli occhi della comunità internazionale.
Ludovico Maremonti