Si è svolto ieri l’evento organizzato dalla Federico II e dal professor De Cristofaro con protagonista Toni Servillo. La proiezione gratuita di un film che ha abbracciato gli obiettivi sociali di una Napoli Est che oggi, finalmente, guarda sorridendo al futuro. Infatti, a fare da scenario alla serata è stato il Complesso Universitario di San Giovanni, prima Academy della Apple in Europa, ed in particolare il suo ultramoderno Auditorium, inaugurato ieri per l’occasione.
La pellicola trasmessa è stata “L’uomo in più”, film del 2001 che ha dato il via alla carriera di regista di Paolo Sorrentino. Al termine della visione, gli ospiti sono stati intrattenuti da un dibattito al quale hanno preso parte personaggi di grande spicco per la vita culturale della nostra Napoli: dal rettore della Federico II Gaetano Manfredi al docente e critico cinematografico Valerio Caprara, dal produttore teatrale Angelo Curti al prorettore della Federico II Angelo De Vivo, dal giovane attore emergente Francesco di Leva fino al grande artista Toni Servillo.
“Fa particolarmente piacere poter vedere che si inaugura una sala del genere con un film così autoctono, nel senso più nobile del termine, nato qui, nato dagli sforzi congiunti di una compagnia teatrale, che è “Teatri Uniti”, mia e di Angelo Curti, che si muove con una costanza, con molti sacrifici ma con intrepido atteggiamento dall’inizio, tra cinema e teatro” ha sostenuto un Toni Servillo particolarmente emozionato dinanzi ad un film che, trasmesso 15 anni dopo, continua a stupire gli spettatori per la contemporaneità dei fatti narrati.
Ed è proprio questo che fa di un film un’opera prima: la capacità di continuare a parlare di attualità nonostante il passare del tempo, di profetizzare fenomeni generazionali che appartengono sempre più al presente e sempre meno al passato. Il motivo che ha indotto alla scelta di questo film per inaugurare la nuova area della Federico II è il suo contenuto: “L’uomo in più” racconta fenomeni popolari come il calcio ed il canto, rendendoli portavoce dell’espressione di una grande tragedia, l’avvento dell’antiumanesimo. Un fenomeno tristemente eterno che Valerio Caprara ha acutamente riconosciuto come protagonista anche della raccolta di saggi di Moravia, “L’uomo come fine”.
La presenza dell’uomo in più, quello che il pubblico immediatamente riconosce come il Jep Gambardella de “La Grande Bellezza”, e del suo primo film sono “l’augurio che il destino di questa sala appartenga al Pisapia cantante e non al Pisapia calciatore, perché il film rappresenta la metafora del bivio di come affrontare la realtà”. Cedere alle ingiustizie, alla stanchezza, alla morte, oppure continuare a sorridere, sorridere senza resa, perché ci sono piante che crescono anche nel deserto, mettono foglie e, perché no, anche qualche frutto. Il deserto di una San Giovanni che oggi vive la sua primavera, raccontata da chi qui ci è nato, cresciuto e che ancora ci vive, come Francesco di Leva, che ha parlato di un quartiere martoriato dai morti e dalla camorra tra l’80 e il 90 e che ieri, soddisfatto ed emozionato, ha detto: “mi sembra incredibile parlare qui, in quest’Università, seduto accanto a Toni Servillo. Le persone finalmente fanno centro della periferia”.
E se, per tutta la durata del film, Tony Pisapia, cocainomane, pervertito e solo, che non si presenta al funerale del padre perché “si è svegliato tardi”, non appare altro che il simbolo negativo delle generazioni di ogni tempo, alla fine è lui a rivelarci il messaggio da cui trarre insegnamento.
“E mi ricordo un amico. Si chiamava Antonio Pisapia. Era un grande calciatore. Voleva fare l’allenatore e non gliel’hanno fatto fare. E si è suicidato. Ma io non mi suiciderò mai. Perché un’altra cosa mi ricordo io. Io ho sempre amato la libertà. E voi non sapete manco che cazzo significa. Io ho sempre amato la libertà. Io sono un uomo libero”.
Difendere se stessi e le proprie libertà. Continuare a ridere, perché “a’ vita è na’ strunzata”. Perché, per mille che muoiono, ce n’è sempre uno che sopravvive. L’uomo in più. Ed è a lui che San Giovanni e tutti noi dobbiamo guardare.
Sonia Zeno