Ieri mattina, a Donetsk, un pullman che passava in una zona controllata dai ribelli separatisti è stato distrutto dall’esplosione di una mina uccidendo almeno tredici persone. L’ennesima strage senza colpevoli certi: secondo i separatisti russi colpevole dell’attacco sarebbe proprio il governo di Kiev, intenzionato a prendere il controllo della zona. La tesi dei separatisti verrebbe confermata da una fonte locale, secondo la quale l’obiettivo dell’attacco di Kiev sarebbe dovuto essere un capannone di ricognizione dei filorussi. In effetti i ribelli avrebbero poco interesse ad un tale attacco in una zona sotto il loro controllo. Il governo di Kiev ovviamente nega, dando la colpa dell’attentato ai “terroristi russi”, affermando che l’autobus si trovasse al di fuori del raggio di fuoco dei soldati filogovernativi.
Secondo l’agenzia ONU per i diritti umani, negli ultimi nove giorni sarebbero morte nel sudest ucraino 262 persone: il periodo più sanguinoso da settembre, dall’inizio della cosiddetta tregua. Una tregua caratterizzata da continue violazioni bipartisan di accordi sempre meno credibili tra i ribelli e il governo centrale, e tra Mosca e Kiev. L’attacco di ieri infatti spezza l’ennesimo ‘cessate il fuoco’ deciso mercoledì a Berlino nell’incontro del cosiddetto gruppo di contatto (composto dai ministri degli esteri di Russia, Ucraina, Germania e Francia e dai funzionari OCSE). Nell’incontro di Berlino si era invano stabilito anche il ritiro dell’artiglieria pesante dietro ai confini di tregua segnati a Minsk: tuttavia Russia e Ucraina si accusano a vicenda di aver disatteso quegli accordi.
Dopo qualche giorno di tentennamento, il governo di Kiev ha ammesso di aver perso il controllo dell’aeroporto di Donetsk, ormai in mano ai filorussi, e hanno ritirato dunque un battaglione che combatteva lì da settimane. Prima della fase finale di questa battaglia, conclusasi con una decina di soldati ucraini uccisi e altri sedici feriti e presi in ostaggio dai separatisti, il presidente Petro Poroshenko aveva lanciato nuove accuse nei confronti della Russia, colpevole di aver inviato novemila soldati nell’est del paese, insieme ad artiglieria pesante. Poroshenko ha chiesto a Mosca di rispettare gli accordi di Minsk, di interrompere il rifornimento di armi e truppe ai ribelli separatisti e di chiudere il confine. «Se volete discutere qualcosa di diverso da questo» ha affermato il presidente, «vuol dire che non volete la pace, vuol dire che volete la guerra». La replica del Cremlino non si è fatta attendere: «Se gli ucraini sono così sicuri di quel che dicono» ha dichiarato il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, respingendo al mittente le accuse, «che presentassero le prove. Ma nessuno può presentarle, le prove, e forse nemmeno vuole».
L’assenza di prove non ha tuttavia scoraggiato i principali sponsor dell’Ucraina in questa guerra, gli Stati Uniti e la Nato, che hanno subito sostenuto la versione di Kiev. Samantha Power (ambasciatore statunitense all’ONU) ha accusato la Russia di aiutare direttamente e indirettamente i ribelli filo-russi nelle battaglie al fine di attuare quello che secondo gli USA è il vero progetto di Putin: un piano di occupazione russa delle regioni orientali dell’Ucraina. Anche Stoltenberg, il segretario generale della NATO, non ha dubbi su chi stia nella ragione e chi nel torto: «Per parecchi mesi abbiamo visto la presenza di forze russe in territorio ucraino, e abbiamo anche visto un sostanziale aumento nel numero di equipaggiamento pesante dei russi nell’est dell’Ucraina».
Vladimir Putin ha però accusato Kiev di non rispondere chiaramente alle proposte russe di tregua e, anzi, di aver dato ordine di iniziare una grande operazione militare «sull’intero perimetro della linea di contatto». Il risultato di questo comportamento da parte del governo di Poroshenko è, per la Russia, sotto gli occhi di tutti: decine e decine di morti e feriti tra militari di entrambe le parti e civili. «Sono criminali» ha tuonato il presidente russo, «le persone che stanno facendo questo dovrebbero sapere che non c’è altro modo di risolvere questi conflitti che con colloqui di pace e misure politiche». Da parte del governo ucraino, ribadisce Putin all’apertura di una riunione del Consiglio di Sicurezza Nazionale, non c’è stata la volontà di accogliere le proposte russe (volte al ritiro dell’artiglieria pesante e ad un vero cessate il fuoco) né di proporre alternative.
Intanto i separatisti della Repubblica di Donetsk hanno fatto sapere, tramite il loro presidente Aleksandr Zakharcenko, che non intendono più cercare un compromesso con Kiev per la cessazione del fuoco nelle regioni autoproclamatesi indipendenti. All’indomani della conquista dell’aeroporto, i ribelli ostentano sicurezza e sembrano seriamente intenzionati a concludere il periodo travagliato di tregua iniziato con Minsk e a lanciare l’offensiva volta a conquistare l’intera regione di Donetsk.
Zakharcenko si dice pronto a proseguire solo con Kiev le trattative per la risoluzione della guerra civile, negando dunque autorevolezza al gruppo di contatto di Minsk nell’attuale composizione.
Intanto l’economia dell’Ucraina crolla anche a causa della guerra che dall’inizio di aprile ha sconvolto le regioni sudorientali del paese, dove sono dislocate le principali industrie carbonifere e metallurgiche del paese. L’assenza di riserve e l’ammontare dei debiti hanno spinto il governo a chiedere 15 miliardi al Fondo Monetario Internazionale, più di quanto è già stato dato e promesso. Lagarde ha fatto intendere la disponibilità del Fondo a prestare tale somma al governo di Poroshenko, a patto che l’Ucraina produca le riforme necessarie al risanamento dei conti e alle restituzione dei prestiti internazionali contratti fino ad ora.
Roberto Davide Saba