La prima proposta di creare una disciplina legale dei partiti, i quali attualmente sono rimessi alla completa anarchia, risale al 2013. Non c’era Renzi, e la promotrice era Anna Finocchiaro.
Il progetto fu velocemente abortito sotto i veementi attacchi del M5S, che denunciava l’utilizzo strumentale della regolamentazione per eliminarlo politicamente, sottoponendolo a controlli delle pubbliche amministrazioni ed obbligandolo a costituirsi in associazione riconosciuta.
Le stesse critiche sono adesso rivolte alla nuova proposta di legge, più recente (anche se presentato più di sei mesi fa) e sempre suggerita dal Partito Democratico. Stavolta nessun dietrofront: la situazione politica è diversa, esistono adesso modelli consolidati di governo e il movimento è debole, non tanto a causa degli attacchi esterni ma di quelli interni, con la creazione di fazioni i cui dissidi sembrano essere pronti a finire davanti ad un tribunale.
Esclusi dalla competizione interna per la candidatura a sindaco hanno presentato un ricorso. Difficile che possa essere accolto: legalmente il M5S non è altro che una allegra combriccola di attivisti politici che si gestiscono internamente e senza interferenze dei pubblici poteri.
Come ogni partito, d’altronde: anche il PD, legalmente, è il nulla giuridico. Sono pochi infatti i casi in cui queste organizzazioni possono finire davanti ad un giudice: a) finanziamento illecito; b) danno erariale; c) cause di lavoro relative ai dipendenti. Nulla di più, ed è un problema non da poco, come dimostra il recente caso delle primarie del Partito Democratico: Bassolino non potrà trovare alcun giudice che possa dichiarare l’esistenza di frodi (ad esclusione della Commissione di garanzia del partito stesso, che certo non può essere considerata imparziale, dato che è chiamata anche a tutelare l’immagine del partito stesso).
La Costituzione è effettivamente laconica sul punto. Mentre prevede un meccanismo di registrazione dei sindacati ed un modello di contrattazione nazionale democratico (fondato su una corrispondenza tra tesserati e peso nella stessa), i partiti sono menzionati in una sola norma: l’art. 49 (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”).
È riconosciuto come diritto, ma non viene strutturato un metodo per controllarne la democraticità, per il timore che si possa esercitare sugli stessi un controllo repressivo mascherato da controllo legalitario. Ma nel contempo l’articolo non si limita a dichiarare, bensì prescrive l’obbligo, per il legislatore, di assicurare che le cellule basilari di un sistema democratico possano funzionare ed essere sane. Cellule basilari, perché è mediante gli stessi che si esercita quella sovranità popolare che è il fondamento della nostra Costituzione. E cellule basilari sono certamente stati fino al crollo della “prima repubblica”, quando il partito era una ramificazione presente nei più piccoli paesi delle isole con le sue sezioni. La morte di questo modello ha creato un progressivo distacco del cittadino dalla politica a cui si è risposto debolmente (leggi sui finanziamenti dei partiti; danno erariale ecc.).
Adesso alla Camera si discute della legge sui partiti. Qualcuno la chiama “riforma”, ma per riformare una legge ne serve una preesistente. Invece sui partiti, salvi gli interventi citati, c’è il vuoto. Promotore è il Partito Democratico, che già aveva presentato una proposta ad inizio legislatura (affossata dalle critiche del M5S). La riforma si basa su un punto centrale: il partito politico, per concorrere alle elezioni nazionali, deve avere personalità giuridica.
Con la acquisizione della personalità giuridica il partito diventa un soggetto di diritto, ossia assume obblighi e diritti distinti da quelli dei propri associati. Il che consente anche alcuni controlli giudiziari (possibilità di invalidare elezioni non conformi allo statuto; possibilità di essere reintegrati nello status di tesserato ecc.), seppur limitati. Ed obbliga ad approvare un bilancio, che deve essere pubblico. Un debole passo avanti, ma che incontra molte critiche.
Il M5S non potrebbe più continuare ad essere un “non-partito” con un “non-statuto”. Lo statuto andrebbe registrato, le non-primarie potrebbero essere oggetto di un giudizio civile, gli espulsi potrebbero chiedere di dichiarare la illegittimità dei provvedimenti di esclusione.
Una vera e propria mina che riformerebbe in toto questa strana struttura, e che viene avvertita come una forma di imposizione della maggioranza politica vogliosa di eliminare un proprio rivale.
Ma non è solo il M5S a pensarla così. Alcuni esponenti dell’opposizione insorgono, parlano di fascismo. Un partito con personalità giuridica è soggetto a controlli da parte delle pubbliche amministrazioni, le quali dipendono funzionalmente dal Governo. Si aprono le porte a quei controlli repressivi mascherati da mezzi legalitari, seppur forse il rischio oggi sia minimo, data la possibilità di ricorrere alla giustizia amministrativa contro simili comportamenti, ma che non può neanche essere del tutto ignorato quando si parla di un tema così delicato.
Vincenzo Laudani