A circa un mese dalla sua scomparsa, Silvio Berlusconi continua a polarizzare il dibattito pubblico e politico italiano a causa della sua figura divisiva, utilizzata come bandiera da chi vorrebbe dedicargli leggi e riforme e dai suoi avversari, come spauracchio per un modo di intendere la politica che dovrebbe essere accantonato nel nome di qualcosa di diverso, lontano dal suo stile e dai canoni interpretativi su cui ha impostato la sua comunicazione politica.
“Un diavolo e un innovatore“, Berlusconi è stato questo. Un diavolo per chi per tanti anni ha cercato di arginarlo in tutti i modi, con campagne elettorali cucite su misura per alimentare l’anti-berlusconismo – che non hanno fatto altro che polarizzare ulteriormente il dibattito – e un innovatore per il suo approccio dinamico alla comunicazione politica, la quale ha “beneficiato” dei suoi trascorsi da imprenditore televisivo ed esperto di marketing e di business.
Il lascito, positivo e negativo, del Cavaliere è immenso ma urge sottolineare come quello maggiormente caratterizzante sia legato alle modalità con cui ha comunicato la sua ascesa, metodi e strategie inedite per un Paese completamente sfiduciato dal più grande scandalo politico – Tangentopoli – che aveva letteralmente spazzato via tutti i partiti. Un uso inedito delle parole, delle emozioni, dell’empatia e della de-responsabilizzazione politica e sociale, che ha cambiato per sempre la storia politica italiana.
L’uomo del “milione” e dei “miracoli”
“L’Italia è il Paese che amo”. A Berlusconi sono bastate queste parole per cambiare per sempre il mondo della comunicazione politica. D’altronde, di questo “mondo”, il Cavaliere ne è stato un pioniere. Imprenditore televisivo di lungo corso, gli anni ’80 hanno rappresentato per lui un periodo d’oro, in cui tra edilizia e televisione, l’ex Presidente del Consiglio è riuscito a costruire un impero. Non mancarono legami con la politica, chiaramente, come testimonia il suo rapporto con Bettino Craxi, ma in quel preciso momento, con quelle parole, Berlusconi intendeva presentarsi come l'”uomo che si è fatto da solo“. E non poteva fare altrimenti, dato il guado in cui la classe dirigente della Prima Repubblica era finita. L’antipolitica si affacciava minacciosamente, così come il “pericolo comunista”; serviva qualcuno di nuovo e affidabile, in grado di empatizzare con gli italiani, conquistandone la fiducia.
Quel messaggio, contenuto in un video entrato ormai nella storia della comunicazione politica italiana, riusciva a stare sul pezzo, toccando tutti i punti sensibili di un’opinione pubblica disorientata. In quell’istante non serviva “più politica” bensì qualcosa o qualcuno che potesse correggere la “rotta” che la classe dirigente italiana aveva intrapreso. Serviva un homo novus, percepito come al di fuori dei palazzi del potere, che non aveva bisogno di “arricchirsi” facendo politica in quanto già “ricco” di suo. Un messaggio, questo, che è stato colto perfettamente da un “pubblico” diventato ben presto lo zoccolo duro del suo elettorato.
Per anni la sua strategia comunicativa è stata affiancata da uno spin doctor, Luigi Crespi, autore del celeberrimo “contratto con gli italiani” stipulato – ovviamente – in diretta televisiva nella trasmissione di Bruno Vespa, Porta a Porta, e trasformato poi in “patto” diciassette anni dopo. Una prova, quella del contratto, che certifica come il medium televisivo sia sempre stato al centro della vita del Cavaliere e di come, di volta in volta, tutte le principali innovazioni inerenti il mondo della comunicazione politica siano arrivate per mano della stessa persona. Anche il confronto televisivo, quello moderno, nasce in epoca berlusconiana. In molti ricorderanno lo scontro prima del voto del 2006, tra Prodi e Berlusconi, il quale al contempo ha certificato come anche i suoi avversari, in un certo senso, siano stati costretti ad adeguarsi e a giocare sul terreno scelto dal Cavaliere.
Tra gli elementi ricorrenti nello stile comunicativo dell’ex Presidente del Consiglio prevale innanzitutto l’elemento emozionale, inedito in Italia fino agli anni ’90. E lo si può capire dalla precisa scelta lessicale e dall’uso ripetitivo di termini quali “amo/amore” o “radici”, in riferimento al padre che gli ha trasmesso la passione per il suo lavoro. Puntare sulla sfera sentimentale fu soltanto l’inizio per un nuovo tipo di lessico, racchiuso all’interno di quel contenitore che, proprio per il suo immenso lascito a tutti i livelli, ha preteso la costruzione di un’espressione a sé stante, il berlusconismo.
Ma non è finita qui. Potente è anche il riferimento ad espressioni meno auliche, più efficaci e di facile comprensione come il gergo calcistico (“discesa in campo”) o alle numerose iperboli – il “milione”, usato per i posti di lavoro, per gli alberi o per le pensioni – o l’uso ossessivo della parola “miracolo”, in grado di trasmettere quelle che nella comunicazione politica vengono chiamate “emozioni positive”, in riferimento ai suoi trascorsi da imprenditore visionario o al futuro, come quando, durante le ultime elezioni politiche, ha promesso agli italiani un “nuovo miracolo italiano”.
La “pop-politik” di Berlusconi
Berlusconi è stata la massima realizzazione, in salsa italiana, di quella che molti chiamano la “pop-politik“. Quella del Cavaliere è stata una figura profondamente “pop”, capace di concentrare su di sé tutte le attenzioni mediatiche possibili, le quali travalicavano la dimensione politica. Intreccio crescente tra pubblico e privato, una politica che sconfina sempre più spesso nello spettacolo e nella personalizzazione, con incursioni sempre più persistenti di pettegolezzi che si mischiano ai fatti politici, chiacchiericcio e urla. L’obiettivo di questa operazione che ha avuto evidenti effetti negativi sulla qualità del dibattito politico italiano, è stato quello di fidelizzare ulteriormente il suo zoccolo duro a livello elettorale.
A questo filone si legano anche le barzellette autoreferenziate, le canzoni di Apicella, le foto e i video con i suoi cani, la bandana e le copertine dei giornali che lo ritraggono assieme ai suoi “amici” in momenti non istituzionali (es. Putin e Berlusconi che giocano con Dudù). E come non citare gli inni, altro lascito “calcistico”. Nella storia italiana nessun partito o leader è associabile come Berlusconi ad un inno. Il suo, considerando anche il periodo del Popolo delle Libertà, ne ha avuto addirittura tre. Il testo del primo fu scritto addirittura dallo stesso Cavaliere con l’arrangiamento di Renato Serio. Chiaramente un inno politico, come quello calcistico, non può essere costruito come un capolavoro di Puccini o di Verdi, bensì deve essere semplice, efficace, in grado di entrare nell’inconscio di chi lo ascolta. Proprio come un messaggio pubblicitario. Per questo motivo gli inni di Forza Italia sono come i classici jingle, cioè quei motivetti che in tv accompagnano la promozione dei prodotti, in grado di persuadere e di restare inchiodati nella memoria. E di esempi circa l’efficacia dell’ultimo ce ne sono molti, tra i quali il suo ritorno in cima alla classifica di Spotify avvenuto a pochi giorni dalla morte del Cavaliere o il video virale di una donna che piangeva mentre lo cantava.
Berlusconi, però, è stato anche l’inventore ufficioso dell’infotainement. Il suo carattere “pop” e la sua capacità di tenere alta l’attenzione su di sé sono state le sue armi comunicative più potenti, in grado di tirarlo fuori da situazioni difficili. Dai trucchi visivi – tra i quali il più famoso resta la calza messa sulla telecamera durante il celeberrimo messaggio della discesa in campo per “cancellare le rughe” e rendere l’ambiente più caldo e familiare – al già citato contratto con gli italiani, un modo per “mettere nero su bianco” una promessa attraverso un “foglio firmato e protocollato”. E come non citare lo scontro con Marco Travaglio, in cui Berlusconi ha dato il meglio di sé, condizionando ospiti e regia con il suo carattere irrequieto e imprevedibile. Nel momento in cui il Cavaliere pulì la sedia di Travaglio, gli ascolti di La7 registrarono picchi del 51% di share: quella puntata fece registrare un record d’ascolti per la rete che resiste ancora oggi. Un uso sapiente di quello che gli esperti chiamano “oggetto di scena” (cioè il fazzoletto), tra i quali potrebbero annoverarsi anche i famosi fogli che Berlusconi portava con sé, avente il preciso obiettivo di far passare il messaggio che le sue proposte fossero concrete e documentate.
Un buon comunicatore deve tenersi sempre aggiornato circa le ultime tendenze e gli ultimi strumenti utili a promuovere la sua immagine. Ed è quello che ha fatto Berlusconi con gli slogan e con l’utilizzo dei social, imponendo i suoi canoni comunicativi ad un mezzo del tutto nuovo ma, al contempo, avvalendosi delle sue peculiarità (come ad esempio quando lanciò una sorta di concorso tra i meme migliori sui suoi cartelloni elettorali). E infine c’è lo sbarco su TikTok…Tak. Il video di lancio del suo nuovo profilo sul social cinese ha raggiunto dieci milioni di visualizzazioni. Numeri non banali che certificano come la figura del Cavaliere sia stata trasversale in ogni contesto.
È difficile riuscire ad esprimere un parere oggettivo circa il lascito di Silvio Berlusconi senza cadere in giudizi di valore legati all’estrema polarizzazione creata dalla sua figura. Non c’è alcun dubbio, però, che si tratti di uno di quei personaggi per cui, dopo la sua scomparsa, esistano un “prima” e un “dopo”.
Donatello D’Andrea